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domenica 31 maggio 2020

Giuseppe Gaetano De Nittis

iuseppe Gaetano De Nittis (Barletta25 febbraio 1846 – Saint-Germain-en-Laye21 agosto 1884) è stato un pittore italiano vicino alla corrente artistica del verismo e dell'Impressionismo.



Giuseppe Gaetano De Nittis nacque a Barletta nel 1846, figlio quartogenito di don Raffaele De Nittis e donna Teresa Emanuela Barracchia. Prima che nascesse, il padre fu arrestato per motivi politici, e, appena uscì di prigione due anni più tardi, si tolse la vita.[1] Rimasto orfano sin dall'infanzia, crebbe con i nonni paterni, e dopo il suo apprendistato presso il pittore barlettano Giovanni Battista Calò, si iscrisse nel 1861 - contro il volere della famiglia - all'Accademia di Belle Arti di Napoli sotto la guida di Mancinelli e Gabriele Smargiassi.
Di indole indipendente e insofferente verso qualunque tipo di schema, si mostrò disinteressato alle nozioni ed esercitazioni accademiche, tanto che fu espulso per indisciplina due anni più tardi. Assieme ad altri pittori, fra cui Federico Rossano e Marco De Gregorio, si diede alla composizione all'aria aperta (dipingevano generalmente a Portici), specializzandosi nella riproduzione di paesaggi porticesi, partenopei e barlettani. Nel 1864 fu notato da Adriano Cecioni e l'anno successivo fondò la Scuola di Resìna, corrente italiana sul tema del realismo.
Firenze, nel 1866, si avvicinò ai Macchiaioli e, dopo aver girato l'Italia toccando Napoli, Palermo, Barletta, RomaFirenzeVenezia e Torino, si trasferì nel 1867 a Parigi dove conobbe Ernest Meissonier e Jean-Léon Gérôme e sposò due anni più tardi la parigina Léontine Lucile Gruvelle, che influenzerà notevolmente le scelte sociali e artistiche del marito.
Il 1869 lo vide esporre per la prima volta al Salon, ma la pedissequa imitazione dei colleghi parigini fece infuriare Cecioni, che gli ricordò come il suo talento avesse bisogno di essere espresso con tratti affatto specifici. De Nittis ritrovò immediatamente la propria indipendenza artistica e riscosse grande successo al Salon del '72 con la tela Una strada da Brindisi a Barletta. Nel '74 ebbe ancora elogi per Che freddo!, in cui l'abituale raffinatezza di esecuzione dell'artista pugliese aveva come soggetto le giovani dame parigine, tema che seppe integrare molto bene nella pittura di paesaggio, meritandosi l'appellativo di peintre des Parisiennes (pittore delle parigine).
Toccò il culmine della sua fama all'esposizione del 1874, tenutasi nello studio del fotografo Nadar e comunemente indicata come data di nascita dell'Impressionismo. Vi espose cinque tele secondo Vittorio Pica e così come si rileva dal Catalogo delle Esposizioni in cui compaiono i titoli di cinque opere, dal nº 115 al nº 119: Paesaggi presso il Bois; Levar di luna; Campagna del Vesuvio; Studio di donna; Strada in Italia. Quell'anno fu poi a Londra dove dipinse scene della vita della capitale inglese.
L'Esposizione Internazionale parigina, nel 1878, riservò grandi onori per De Nittis: fu insignito della Legion d'onore, mentre una sua opera, Le rovine delle Tuileries, fu acquistata dal governo per il Museo del Lussemburgo.(in origine il nome del dipinto era: La Place du Carrousel).
Fu assimilabile per certe caratteristiche ai Macchiaioli e agli Impressionisti, ma mantenne sempre un'indipendenza di stile e contenuti.
Morì nel 1884 a Saint-Germain-en-Laye, colpito da un fulminante ictus cerebrale. È sepolto a Parigi, nel cimitero di Père-Lachaise (divisione 11) ed il suo epitaffio fu scritto da Alessandro Dumas figlio. Sua moglie Léontine donò molti suoi quadri alla città natale del pittore, ora conservati nella Pinacoteca De Nittis collocata nel Palazzo della Marra a Barletta.

Nel 2010 il Museo del Petit Palais di Parigi dedicò a De Nittis la grande mostra: "De Nittis,la modernité élégante".



















 la rivoluzione dello sguardo” è decisamente imperdibile. L’esposizione regala ai visitatori la possibilità di capire al meglio la realtà elaborata dall’artista pugliese che rappresenta sulla tela inquadrature di grande audacia, caratterizzate da tagli improvvisi e prospettive particolari, resi sorprendenti grazie alla sua sapiente resa della luce e delle atmosfere. Il suo obiettivo è descrivere quanto vede attraverso vere e proprie istantanee, che declinano un mondo anzi, “i mondi”, dai paesaggi assolati dell’Italia meridionale, alle affollate piazze di Londra e Parigi, ai salotti della buona società, ai giardini in cui una varia umanità è impegnata a trascorrere il proprio tempo, sempre con un occhio fugace e transitorio, come la vita: la bellezza di un prato fiorito o dell’eleganza di un vestito alla moda, ma anche la solitudine che attanaglia sul bordo di un fiume o l’indifferenza di persone che camminano ciascuno preso dietro i fatti propri (come reciteranno tanti anni dopo alcune famose canzoni…). Ecco dunque che una nuova prospettiva visiva intende “fermare” sulla tela quegli attimi di vita vissuta. De Nittis lo fa sperimentando e utilizzando la sensibilità ottica già affinata dagli amici Manet, Degas, Caillebotte: una pittura che strizza l’occhio alla fotografia in una “rivoluzione dello sguardo” che appunto apre l’arte alla modernità.

Giuseppe de Nittis era nato a Barletta il 25 febbraio 1846, quarto figlio di don Raffaele de Nittis e di Teresa Buracchia. I suoi genitori erano agiati possidenti, ma qualche mese avanti la nascita di Giuseppe, don Raffaele venne arrestato come politicamente sospetto: uscito di carcere, dopo circa due anni, coi nervi rovinati, si uccise. Giuseppe crebbe coi fratelli in casa dei nonni paterni, e dimostrò ben presto scarsa passione per i libri e notevole interesse invece per le matite e i colori. Avuti i primi insegnamenti da Giovan Battista Calò, nel 1861, vincendo l’ostilità dei suoi, ottenne di entrare all’Istituto di Belle Arti di Napoli. Ma la scuola accademica, la scuola in genere non era fatta per lui, e dopo due anni di frequenza venne allontanato dall’Istituto per indisciplina: e certo l’indisciplina era nei suoi occhi che volevano “vedere” senza impacci di formule, vedere e cogliere la realtà, com’è, in quell’attimo, volti, alberi, case. E il cielo, il cielo che con i suoi giochi di luci e di ombre doveva ispirargli tanti mirabili accordi cromatici, e le righe appassionate dei Ricordi: “L’atmosfera, vedete, la conosco bene: e l’ho saputa dipingere. conosco tutti i colori, tutti i segreti della natura”. Dal 1863 al 1867 con gli amici Rossano e de Gregorio, ai quali si unirono poi Alceste Campriani, Antonino Leto e altri, dipinge all’aria aperta; Portici, Napoli, Barletta, vedono i giovani entusiasti che col loro armamentario si danno al vento, al solleone, e magari sotto violente acquate, a una vera orgia di “studi”. In quegli anni si decise lo stile di de Nittis; in quelle giornate libere e piene egli trovò il segreto della sua arte, imparò a vedere vero più che “esatto”, formò la mano e la tavolozza. Scuola di Resina fu chiamata la compagnia: Repubblica di Portici la ribattezzò Domenico Morelli, con un po’ d’amaro, giacché quegli “indipendenti” non volevano riconoscere nessun maestro. Nel 1864 de Nittis ebbe il primo memorabile riconoscimento: due sue minuscole scene intitolate L’avanzarsi della tempesta, male esposte nella sala delle cose mediocri alla Permanente napoletana. Ma l’occhio di un visitatore d’eccezione, lo scultore Adriano Cecioni, che fu anche uno dei nostri più acuti critici d’arte, le scoprì subito ed elogiò il giovane pittore predicendogli il successo. Infatti due anni dopo de Nittis ebbe l’onore di vedere acquistati, alla stessa mostra, per conto del Re, due dipinti: Un casale nei dintorni di Napoli e La traversata degli Appennini. Ormai “Peppino” non è più un ignoto, e nel “clan” dei giovani si guarda a lui con interesse. Attraverso Cecioni la sua fama è giunta al battagliero gruppo dei Macchiaioli fiorentini: così quando nel 1866 de Nittis si reca a Firenze vi è accolto amichevolmente e le sue tavolette, esposte anche alla Promotrice fiorentina, suscitarono, più che consenso, entusiasmo: Signorini, Borrani, Lega, Abbati, Sernesi, l’infervorata compagnia del Caffè Michelangiolo decretò al vivacissimo Peppino gli onori del trionfo: la delicatezza dei toni, la giustezza della visione, l’eccezionale agilità della mano, apparvero infatti doti di un Maestro. Tra il 1866 e il 1867 de Nittis compie varie peregrinazioni a Napoli, Palermo, Barletta, Roma, Firenze, Venezia, poi, nell’estate del ’67, lo troviamo a Torino in procinto di partire per Parigi. Anche qui piace subito. Gerôme lo incoraggiò a “faire de la figure”; Meissonier gli offre di dipingere i paesaggi che dovranno servire da sfondo alle figurine dei suoi quadri pagati a peso d’oro; Reutlinger gli compra per trecento franchi (un capitale!) due tavolette. La via gli si apre facile purché accetti dei compromessi col suo gusto e col suo istinto. Scrive al Cecioni per consiglio, e questi gli risponde: “Mantieniti indipendente, tu non puoi essere scolaro di nessuno”. De Nittis, sebbene non fosse, come ebbe a dire argutamente Diego Martelli, “carne di martire”, ascoltò il saggio consiglio dell’amico, e poiché il modesto peculio stava per finire, tornò in Italia. Per poco. Alla fine del 1868 è ancora a Parigi, dove, cedendo infine ai consigli interessati di Reutlinger e al desiderio di facile guadagno, si dedica davvero a “far della figura”, del costume, degli interni, con innegabile virtuosismo, sulle tracce del Meissonnier, dello Stevens, del Fortuny: sui quali però sempre sopravanza per la squisitezza del colore e la magia del disegno. È ancora il Cecioni che lo trarrà sulla retta via dell’arte, ammonendolo, burbero, dopo aver visto i quadri esposti dal de Nittis al Salon del 1869. “Hai forse bisogno di copiare gli altri, tu?”. Così cosciente è il pittore del proprio torto, che lascia in abbozzo un gran quadrone Concerto in giardino al tempo di Luigi XVI e riprende la sua ispirazione dal vero. La guerra del 1870, riconducendo il de Nittis ai luoghi della sua iniziazione artistica, contribuirà poi a dissipare ogni equivoco nella sua mente, e a fissare una volta per sempre la sua strada. Quando nel 1871 de Nittis ritorna a Parigi è ormai maturo per la grande affermazione. Infatti al Salon del 1872 una sua tela di piccole dimensioni, La strada da Brindisi a Barletta, attirava l’attenzione di tutti e lo rendeva celebre di colpo. “Sempre parleremo” scrisse Paul Mantz [redattore della “Gazette des Beaux-Arts”, n.d.r.] “dell’ombra di un azzurro violaceo che la piccola diligenza di de Nittis proietta sul terreno biondo della strada polverosa. Quell’ombra sì giustamente colorata ha costituito un avvenimento nella scuola moderna e molto è servita agli Impressionisti”. Legato con un contratto vantaggioso al famoso mercante di quadri, Goupil, de Nittis non esita a sciogliersene, con sacrificio, per conservare la sua libertà artistica insidiata dal cortese ed astuto manager: così nel 1874 la giuria del Salon, che subiva l’influenza del Goupil, gli accetta solo uno dei tre quadri presentati (Guidando al Bois, Tra le spighe di grano e Che freddo!), ma quell’uno, Che freddo!, ha un successo strepitoso. Mentre in una bella lettera al Cecioni e agli amici fiorentini de Nittis si dichiara lieto della riconquistata indipendenza, nel 1874 stesso partecipa con cinque quadri alla prima storica esposizione degli Impressionisti nelle sale del fotografo Nadar. Sono con lui Degas, Renoir, Sisley, Pissarro, Boudin, Cézanne, Lépine, Bracquemond, Guillaumin, Berthe Morisot. Sempre nel 1874 de Nittis si reca per la prima volta a Londra e con la sua facilità di assimilazione, con la sua prontezza a cogliere il “caratteristico” di un luogo, di un momento, subito dà mano alle grandi tele di vita londinese. Come il grigio sereno del cielo di Parigi, il passo elegante della parigina, gli alberi sfumati del Bois avevano trovato in lui il più esatto e spiritoso interprete, così l’affumicata tragedia dei quartieri popolari e la “noia britannica” dei quartieri signorili, le nebbie e l’agitata vita di Londra, trovarono per incanto un magistrale riflesso nei quadri di questo meridionale che “vedeva inglese” più di qualunque inglese: Westminster e La domenica a Londra, Waterloo Bridge e Piccadilly sono tra le testimonianze più significative che un pittore abbia lasciato della vita, dell’aspetto, dell’ “umore” di una città e di un popolo in un dato momento della sua storia. La famiglia (de Nittis aveva nel 1869 sposato una parigina, Léontine Gruvelle) e il lavoro: queste le sole “avventure” del de Nittis di qui innanzi: dieci anni di attività, all’aria aperta nella campagna napoletana durante le brevi scappate in Italia, oppure chiuso in un fiacre o in un cab a cogliere il ritmo e il segreto, a “tastare il polso” di Parigi o di Londra. Il 1878 vede il suo trionfo all’Esposizione Internazionale: legion d’onore, un quadro, Le rovine delle Tuileries, acquistato dal Governo francese per il Museo d’Arte Moderna, un altro La Place des Pyramides donato dal pittore riconoscente (che lo ricompera per 25.000 franchi dal Goupil) allo stesso Museo (ov’è ancora). Onori, critiche, invidie. Piccolo, grassottello, arguto, bonario, sprizzante vivacità dal suo volto bruno, incorniciato da una barbetta nera. De Nittis ride, s’arrabbia, lascia dire e lavora. Negli ultimi anni è preso da una grande passione per il pastello. Tecnica che si addiceva al suo spirito, alla sua passione per le sfumature delicate e preziose. Egli vi apporta intelligenti innovazioni e compie ritratti al vero, vedute cittadine, e le famose scene delle Corse a Longchamps. Ma il troppo lavoro ha logorato la sua forte fibra. Uno strano torpore, una sconosciuta malinconia lo invadono negli ultimi mesi. Il suo occhio così acuto si appanna, non vede più chiaro. Pure, ancora, con disperata energia, dipinge fino agli ultimi momenti, anche se vede la tela come spruzzata da mille macchioline nere. Sul suo cavalletto si alterna in due o tre diverse impaginazioni la stessa scena all’aria aperta: la moglie e il figlio, in giardino. Il 21 agosto 1884 un attacco di congestione cerebrale lo atterra. In pochissime ore. De Nittis non è arruolabile in alcuna scuola, in alcun “movimento”. Passò attraverso l’accademia napoletana, vecchia e nuova, attraverso l’accademismo travestito di Gerôme e di Meissonier, attraverso il Macchiaiolismo e l’Impressionismo: e rimase, nel fondo, sempre fedele a se stesso. Dell’Impressionismo accettò quanto si confaceva al suo istinto, e lo completava, e ne sentì e seguì profondamente le due ricerche capitali, quella dell’atmosfera e quella del carattere della vita moderna, ma non spinse l’una sino alle disfatte armonie cromatiche di un Monet, né l’altra alle crudeli deformazioni di quel “nemico della grazia” che fu Degas. Egli rifuggiva da ogni rigida teoria e la sua tecnica variava a seconda della necessità: così, studiando le sue tele, vi vediamo praticata la giustapposizione delle “tinte pure” quando è necessario ottenere una nota splendente, alla maniera impressionistica, ma più spesso i toni sono creati sulla tavolozza o ottenuti con sapienti velature. Inoltre de Nittis non abolì del tutto, come un Monet o un Renoir o uno Zandomeneghi, il “bitume” dalla sua tavolozza, che pure non è mai “sporca”. Sensibile alla poesia dei grigi caldi e dei toni fini sostenuti da delicate armature e appoggi di bruni, ha pochi rivali nella ricchezza delle sue armonie in tono minore: non per nulla era un fervido ammiratore di Corot. Tutte le sue inquietudini, le sue apparenti contraddizioni, le ricerche di pastellista e di acquarellista, la sua passione per le stampe giapponesi e per le affiches multicolori, tutto significa l’ansia di chi vuol cogliere, fermare l’inafferrabile, l’aria, la luce, il mistero dei riflessi che modificano le colorazioni e divorano o esaltano le forme. “Si dovrebbe” egli diceva, “poter dipingere, nella sua apparenza esatta, una statua di bronzo rischiarata da un sole a picco in mezzo ad una campagna bianchissima…”. Fu detto il Guardi del suo tempo e indubbiamente i suoi quadri sono un documento preziosissimo per ricostruire lo spirito dell’epoca vicina, e pur già così lontana, in cui visse, e il carattere delle città che ritrasse. Nessuno come lui ha tradotto il fascino sottile delle vie parigine, la strana intensità della loro vita e quella loro atmosfera colma a volte di una polvere sottile che mette come un velo leggero di cipria su tutte le cose, altre volte così limpida e frizzante che par di vivere in un cristallo… E Londra, colossale officina fumosa, nerastra, lebbrosa e milionaria, con quale occhio implacabile fu vista da lui. Come Degas sotto l’influsso dei giapponesi, de Nittis osservò che la vita spesso ci presenta le cose sotto angoli speciali: da una terrazza, dal finestrino di un treno, dal basso di un ponte. Della donna vide spesso – e gli fu rimproverato – l’aspetto grazioso, seducente. Egli la rese come la sentì, creando un tipo inconfondibile, la Parigina raccolta e civettuola del 1880, come Boldini doveva creare quella della Belle Époque (1890-1914), frizzante e viperina, e l’olandese Van Dongen quella del 1920 dalle ciglia a stella e dalle lunghe gambe nelle calze di seta. Si capisce come in un’epoca in cui il costume storico predominava e il costume contemporaneo, quando appariva, era studiato su modelle che avevano appena deposto il peplo o la crinolina, dovesse ottenere un successo fulminante quel Che freddo! così arguto e spontaneo, con quelle tre donnine rabbrividenti e ridenti nel Bois. “Nessuno può immaginare oggi di quale straordinaria notorietà godesse, da vivo, de Nittis” scrisse Bénédite, un noto studioso francese. E infatti quando giunse la notizia della sua morte, i commenti della stampa furono vasti e commossi. Ci fu persino un critico che con un’affettuosa iperbole scrisse che la scomparsa del pittore italiano “decapitava” al tempo stesso l’Impressionismo e la pittura europea… Al suo funerale parteciparono gli amici Dumas, Degas, Rodin, Puvis de Chavanne, Forain, Daudet. Sepolto al Père Lachaise, a pochi passi da Cherubini, ebbe una epigrafe che suona come uno squillo di tromba: Qui giace Giuseppe De Nittis, morto a trentotto anni, in piena giovinezza, in pieno amore, in piena gloria, come gli eroi e i semidei. L’aveva dettata Alessandro Dumas figlio.

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