auto antiche e moderne

venerdì 7 dicembre 2007

Una critica e la risposta del pittore

Alberto amava definirsi " il pittore del Nulla".Infatti la sua era una pittura aniconica, ma non priva di elementi di ricerca quali la luce ed il colore . Il suo " Nichilismo pittorico" fece si che qualche critico ebbe a scrivergli così :


Il nulla porta un artista come l’americano Ad Reinhardt alle tele nere, quelle che ha chiamato i 'dipinti definitivi', un musicista come John Cage a 4´33', il pianista seduto di fronte al suo pianoforte, che non sfiora nemmeno, per lunghi quattro minuti e trentatré secondi, o un regista come Jean-Luc Godard allo schermo bianco dei suoi film. Se il nulla confonde l´artista, turba ancor più lo scienziato, che lo ha sempre guardato con gran sospetto.
Lo si vede innanzitutto nella storia dello zero, dove ci sono ipotesi suggestive e forse vere. Si sa da molto tempo che lo zero è stato introdotto dai matematici indiani verso il 500 d.C. accanto alle altre nove cifre che usavano già da vari secoli. Duecento anni dopo lo zero passò agli arabi e da questi in Italia e in Europa per merito di Leonardo Fibonacci che avendo seguito il padre, funzionario delle dogane di Pisa in Africa del nord, si rese conto che il sistema di numerazione indo-arabo era superiore a quello romano allora ancora in uso in Occidente. Gli studi successivi hanno poi accertato che quasi contemporaneamente e indipendentemente dagli indiani anche i Maya avevano scoperto lo zero e che molto prima di loro (oltre 2000 anni prima sia degli indiani che dei Maya) i babilonesi avevano usato per indicarlo due cunei inclinati. I primi ad usare lo zero, insomma, sarebbero stati i babilonesi, anche se questo nulla toglie al primato assoluto degli indiani perché solo questi ultimi concepirono lo zero come un vero e proprio numero, sinonimo di “quantità nulla” e lo posero accanto alle altre nove cifre componendo così un insieme completo di simboli matematici che consentiva di generare qualsiasi numero dato che quella strana cifra assumeva per loro la funzione fondamentale di operatore aritmetico. Solo gli indiani, insomma, furono capaci di operare la perfetta fusione tra sistema di numerazione posizionale e concetto di zero dalla quale è nato il linguaggio della matematica.
La filosofia greca, fin dalle sue origini, ha respinto il concetto del nulla. Talete è stato fra i primi a sostenere che 'qualcosa' non poteva derivare dal nulla o scomparire nel nulla: 'Dal nulla non sortirà nulla', dice il Re Lear alla figlia Cordelia. L´horror vacui della fisica aristotelica affermava che non potevano esistere spazi vuoti: la natura aborre il vuoto.
E fino all’inizio del ventesimo secolo, sopravvisse la credenza nell’esistenza di un 'etere' misterioso, che serviva soltanto a negare l´esistenza di uno spazio vuoto. Non è stato semplice per l´uomo accettare l´idea del vuoto e del concetto matematico che lo rappresenta, zero. Grandi civiltà, come quella greca e quella romana, non avevano il numero zero. I numeri servivano soltanto per contare oggetti concreti, non la loro assenza e quindi lo zero non serviva a nulla. .........................................................


cosi Alberto rispose :

Gentilissimo Critico, la ringrazio per l'attenzione dedicata alla mia povera produzione artistica apparsa su Internet sul sito di mio fratello. La notizia del suo divertimento mi ha a mia volta,molto divertito. Non è mia l'invenzione della "pittura del Nulla": la scoperta di un'arte puramente visiva in cui la forma si dissocia dal contenuto e ne fa pure a meno.
Come ben saprà,è un idea resa oralmente esplicita (verbalmente dichiarata e rivendicata) ormai da circa un secolo.
Cito semplicemente il lemma "formalismo",in Enciclopedia Zanichelli a cura di Edigeo (Editoriale La Repubblica,1995).
Con la mia personale ricerca nel corso dell'ultimo mezzo secolo della mia attività,( isolata,modesta,schiva e deliberatamente lontana da ogni tentazione mercantile) sono spesso approdato ad esiti antinaturalistici,aniconici,antisimbolisti,svincolati da ogni ambiguo e fuorviante rimando alle materie che formano più propriamente l'oggetto della comunicazione verbale. (poesia,psicologia,sociologia,religione,eros,filosofia.ecc ecc.). Non chiedo consensi,ma,semmai,empatia estetica.
Gradisca i miei saluti. Alberto Buggè





L’artista del nulla



Quel pittore di New York, dal nome italiano, ispirato da Firenze e che in California ha "completato" la sua opera
Quella mattina a Roma c’era un sole caldissimo, spuntato all’improvviso dopo mesi e mesi di pioggia e freddo. I romani avevano atteso a lungo la buona stagione che quell’anno sembrava davvero non arrivare mai. Gli esperti avevano sentenziato che era da 150 anni che non c’era stato un tempo così cattivo in Italia, con neve a bassa quota anche in pieno maggio, cosa davvero incredibile.
Ma finalmente le cose sembravano essersi raddrizzate. Nelle piazze erano di nuovo spuntati i tavolini all’esterno di bar e ristoranti e nei giardini interni degli alberghi, i clienti potevano finalmente crogiolarsi al sole, sotto vezzosi cappellini di paglia. E due splendidi cappelli di paglia erano appunto quelli che indossavano il signor Mark Goldman e sua moglie Betty quella calda mattina, mentre leggevano una copia dell’Herald Tribune nel giardinetto interno dell’Hotel Modigliani.
Sotto ai cappelli entrambi indossavano abiti casual con t-shirt coloratissime e jeans. Scintillanti collane indiane adornavano i loro colli mentre sulle sedie di fronte poggiavano i loro piedi rigorosamente nudi e abbronzati.
Mark era un artista di Carmel-by-the sea, in California, anche se era in realtà originario di New York City. Il suo studio da pittore si chiamava Marco, all’italiana, proprio come il nome del proprietario di quell’hotel che lui agganciò immediatamente con un: “Ehi, Sir, noi ci chiamiamo nello stesso modo !”.
E quando il proprietario ordinò un cappuccino e si mise a chiacchierare con lui, ecco che Mark passò subito ad illustrare in dettaglio tutti gli aspetti della sua attività artistica, iniziando proprio da quella scuola di pittura contemporanea che da giovane aveva frequentato a New York.
“Negli anni ’70, d’estate, andavamo a perfezionare la nostra tecnica a Firenze. Ma non tutti gli allievi venivano inviati lì, a spese della scuola. Sono i migliori, e io, naturalmente, ero uno di quelli”, diceva Mark, senza alcuna traccia di umiltà. Betty, nel frattempo, continuava a sfogliare il suo giornale, cercando ogni tanto di spostare la sedia per catturare al meglio qualche caldo raggio di sole.
“Mark è bravissimo”, diceva ogni tanto, prima di riprendere a leggere.
“Ho studiato moltissimo”, insisteva Mark. “Come Picasso sono passato dal disegno dal vero, alla natura, dallo studio dei visi agli oggetti. Fino ad arrivare a quello che a me interessava di più”.
“E sarebbe?”, domandò il proprietario, cercando di trattenere uno sbadiglio.
“Il nulla”, sentenziò immediatamente Mark, con uno straripante sorriso.
“Ah, ecco. Adesso è tutto chiaro”, commentò il povero italiano, ormai completamente frastornato.
Subito dopo Mark iniziò a parlare di Firenze e di quanto quelle estati italiane avevano influito sulla sua personalità di uomo e sulla sua tecnica pittorica.
“La sera andavamo a mangiare alla Trattoria Angiolino che si trovava nelle antiche scuderie di palazzo Frescobaldi. Ricordo che alle pareti c’erano i resti di un grande affresco di Pietro Annigoni. All’ingresso invece c’era un grande bancone di marmo dove io e il figlio del proprietario ci giocavamo la cena a braccio di ferro”.
“E chi vinceva?”
“Lui, è evidente, anche perché io ero troppo ubriaco di vino rosso toscano per essere minimamente competitivo. Così gli dicevo di segnare che avrei pagato il conto il giorno dopo. Cosa che, comunque, non feci mai”.
“E come andò a finire?”
“Andò a finire che un giorno suo padre si incavolò moltissimo e minacciò di chiamare la polizia, se non avessimo pagato una volte per tutte. Per fortuna che in quel gruppo di studenti americani c’era il figlio di un famoso miliardario di Wall Street, un certo Spencer, il quale si offrì di saldare lui. Tirò fuori un libretto assegni e ualà, tutto risolto”.
“E ualà…”, ripeté l’italiano, sperando che anche per il conto dell’albergo di Mark e signora  non  sarebbe dovuto intervenire qualche miliardario di passaggio.
Fu più o meno in quell’istante che l’eccentrica Betty tirò fuori dalla sua borsa l’ultimo modello di I-pod e, digitato l’indirizzo del sito del marito, iniziò a mostrare al povero proprietario tutte le opere dell’artista.
“Ecco qua”, commentò Mark, mentre, una dopo l’altra, si avvicendavano sullo schermo le foto delle sue opere.
Si trattava di quadri giganteschi del formato di circa due metri per tre. In realtà, più che quadri veri e propri, erano proprio semplici tele tutte bianche, così com’erano state costruite. Non c’era alcuna traccia di colore, né un colpo di pennello e neanche qualche squarcio di coltello alla Lucio Fontana o qualche sacco di tela appiccicata stile Alberto Burri. No, le opere di Mark Goldman erano solo tele bianche, di varie dimensioni, ma tutte assolutamente bianche.
“Il nulla”, confermò Betty, estasiata.
“Il nulla”, ripeté il proprietario, distrutto












Nessun commento: