auto antiche e moderne

sabato 30 novembre 2019

GIOVANNI FRANCESCO BEZZI detto NOSADELLA






GIOVANNI FRANCESCO BEZZI detto NOSADELLA   
Giovanni Francesco Bezzi conosciuto anche come Nosadella è stato un pittore italiano. Sviluppò il suo lavoro durante l'epoca manierista, principalmente a Bologna, e Nosadella è il nome della via in cui visse, . Probabilmente viaggiò anche a Roma. Fu discepolo di Pellegrino Tibaldi








venerdì 29 novembre 2019

Luciano Richetti 800 italiano

Luciano Ricchetti (1897 – 1977)


 Tra le due guerre mondiali e sino alla metà del secolo espressero la loro piena maturità artistica numerosi giovani pittori come: Luigi Arrigoni, Luciano Richetti, Gianno Giacobbi, Osvaldo Bot, Alfredo Soressi, Giacomo Bertucci, Alessandro Marenghi. 

Ad eccezione di Bot, tutti rientrano in una corrente figurativa che tentò esperienze ora espressionistiche ora geometrizzanti. 


Tra di loro, Luciano Richetti è considerato un pittore di statura nazionale posto da alcuni critici all’altezza di un Saetti, di un Carpi, di un Funi, rimasto in qualche modo bloccato da una pigrizia provinciale e dalla avversione ad affrontare rischi e avventure fuori da Piacenza vince però il premio Cremona  con l’opera   sotto esposta
L'Ascolto




RICCHETTI, Luciano
di Alessandro Malinverni - Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 87 (2016)

Condividi   
RICCHETTI, Luciano. – Nacque il 27 aprile 1897 a Piacenza, in via Garibaldi, da Cesare, commerciante con negozio di abbigliamento, ed Elvira Balduzzi. Nel 1908 iniziò a frequentare la scuola d’arte dell’Istituto Gazzola, mostrando tuttavia insofferenza verso gli insegnamenti del maestro di figura Francesco Ghittoni, ancorati alla tradizione accademica. Già dodicenne si distinse esponendo due disegni in un negozio di Piacenza, lodati dal quotidiano locale, Libertà, che a distanza di tre anni, nel 1912, lo definì «una bella speranza» per l’arte locale (1° gennaio 1912). La sua attività dal 1913, anno in cui smise di frequentare il Gazzola, al 1917 rimane oscura. Dal 15 novembre 1917 al 4 novembre 1918 partecipò alla guerra prestando servizio nel 24° reggimento fanteria, quindi nel 13° e 21°, di stanza a Piacenza.

Ebbe un fugace avvicinamento al futurismo, esponendo nel 1919 sei caricature presso il ridotto del teatro Municipale di Piacenza alla mostra dei futuristi. L’abilità disegnativa lo indusse a lavorare, negli anni Venti e Trenta, come illustratore per le riviste La Lettura, Romanzo mensile, Fantasie d’Italia, Domenica del Corriere, Corriere della sera, Corriere dei piccoli, Il falco, Piacenza. Fornì inoltre disegni per le Poesie di Valente Faustini, pubblicate a Piacenza nel 1926. Nel 1920 presentò ottanta opere alla mostra organizzata dall’associazione Amici dell’arte, non riscuotendo tuttavia consensi di critica. Riscontri più positivi ebbe la partecipazione alla seconda esposizione allestita l’anno successivo dal sodalizio piacentino. Tra i soggetti da lui maggiormente indagati era la donna, spesso raffigurata senza veli, in pose ambigue e in abiti esotici, in aperta ribellione nei confronti del maestro Ghittoni. Trasferitosi nell’estate del 1922 nel castello di Montechiaro, per dipingervi la sala degli Stemmi, lavorò alacremente anche alle opere da presentare alla III mostra degli Amici dell’arte, che si rivelò un’ottima vetrina grazie all’eco della visita di Ugo Ojetti, il 17 settembre. Ricchetti vi espose paesaggi, dipinti di animali di gusto bruzziano, scene di genere, nudi e ritratti, apprezzati tanto dal mercato quanto dalla critica, grazie a uno stile più coerente e saldo, capace di spaziare attraverso temi e soluzioni formali sempre differenti, ma restando fedele al dato reale.

Nel 1923, grazie alla borsa di studio Remo Biaggi, istituita a favore di artisti piacentini, poté frequentare le lezioni di Ambrogio Alciati all’Accademia di Brera, dove si aggiudicò il premio Bozzi Caimi con una Testa di giovane donna. L’esperienza milanese affinò ulteriormente il suo stile figurativo: uso del colore piacevole e carico, solidità delle figure, forti contrasti luministici, tocco veloce e disinvolto. Alciati, in una lettera nell’ottobre del 1926, lo includeva tra i propri migliori allievi.

Nel 1928 ricevette un’importante commissione: tre dipinti da collocare sullo scalone del palazzo dei Consorzi agrari a Piacenza (oggi detto palazzo ex Enel), nei quali fuse sapientemente l’afflato barocco con la lezione di Ettore Tito e la grazia liberty. Due anni dopo, nel 1930, partecipò invano al concorso per la cattedra di figura all’Istituto Gazzola, vinta da Umberto Concerti; e ottenne al XIV concorso del premio Artistico perpetuo di Parma una menzione d’onore per il dipinto Gente tranquilla. L’anno successivo, Paolo Baratta, presidente dell’Accademia di belle arti di Parma, gli rilasciò un attestato che sottolineava la sua «spiccata attitudine all’insegnamento» e lo raccomandava «non solo per le qualità intrinseche, ma anche per quella concezione nuova ch’egli dimostra di possedere davanti al vero» (Arisi, 1997, p. 13). Nel 1932 Ricchetti partecipò alla fiera-esposizione al Littoriale di Bologna; vinse ex aequo il premio del Rotary Club Italia con il Ritratto del consigliere nazionale Giuseppe Steiner alla Biennale di Venezia; e il Comune di Forlì gli acquistò il dipinto Anime serene per la Pinacoteca civica alla Mostra regionale di Forlì, organizzata dal sindacato fascista belle arti Romagna Emilia.

Allineato al regime, nel 1933 partecipò al concorso per la decorazione del salone di ricevimento della prefettura di Bologna: arrivato secondo, si vide comunque acquistare i bozzetti e nominare «fiduciario provinciale» del Sindacato belle arti di Bologna. Probabilmente in questo periodo realizzò la decorazione per la casa littoria di Piacenza, scialbata alla caduta del fascismo, ma nota attraverso alcune fotografie dello studio Manzotti. L’indefesso lavoro lo spinse a partecipare a concorsi e collettive, ottenendo spesso riconoscimenti, tra i quali si ricordano: una menzione onorevole per il dipinto Gitana, presentato al premio Artistico perpetuo di Parma del 1934; il primo premio vinto lo stesso anno alla I Mostra interprovinciale sindacale emiliana con Modelle in riposo, acquistato dal Comune di Piacenza per la Galleria Ricci Oddi, tra gli esiti più significativi della sua produzione del periodo (distante dalle avanguardie e dall’esperienza metafisica, e vicino a Novecento); il primo premio, ex aequo con Ottorino Romagnosi, alla mostra sul paesaggio promossa l’anno successivo dall’Istituto Gazzola. A questi seguirono prestigiosi commissioni in città: nel 1935 il collegio Alberoni gli richiese la decorazione della sala del Consiglio nel palazzo cittadino di via X Giugno 3, per la quale si ispirò in chiave neobarocca agli affreschi settecenteschi di Luigi Mussi nello stesso palazzo; nel 1938 firmò i dipinti a tempera nel liceo classico Melchiorre Gioia, raffiguranti Piacenza fascista, romana, medievale e primogenita, in parte scialbati alla caduta del fascismo e risarciti nel 1955 con l’incontro di Ulisse con Nausicaa. La consacrazione nazionale avvenne nel 1939, quando trionfò al premio Cremona con il dipinto In ascolto del discorso del Duce, che gli ottenne 40.000 lire e fama istantanea, anche grazie a un articolo elogiativo di Ugo Ojetti sul Corriere della sera del 19 luglio. Per le sue notevoli dimensioni, l’opera venne realizzata presso la sede già degli Amici dell’arte, che ospitava l’Istituto fascista di cultura. Destinata al Museo civico di Cremona, fu smembrata nel 1945: ne sopravvivono il frammento centrale Madre e figlio (donato alla Ricci Oddi da Olivio Teragni nel 1978), Testa del balilla (Piacenza, Banca di Piacenza), Natura morta di frutti e verdure (collezione privata), oltre a un bozzetto (Collezioni Cariparma), e studi e disegni preparatori in collezioni private. Sull’onda di questo successo, nello stesso anno Ricchetti presentò un dipinto alla Biennale di Venezia; venne nominato rappresentante del sindacato nazionale belle arti nella commissione giudicatrice del concorso per affreschi bandito dal comitato dell’Ottava Settimana Mantovana; progettò una lunetta a ricordo del 23 marzo nella galleria XXIII Marzo di Cremona, realizzata nell’estate del 1940; firmò il bozzetto per un arazzo destinato alle nuove sale del Senato, del quale venne approntato soltanto il cartone. Nel 1940 partecipò nuovamente al premio Cremona, con un’opera contrassegnata dal motto «Più profondo è il solco più alto è il destino», che non vinse, ma fu scelta per l’Esposizione di arte italiana di Hannover. Nel 1941, tra le tante occasioni lavorative, si segnalano: la partecipazione alla III Mostra del sindacato nazionale fascista belle arti di Milano e la vittoria ex aequo con Gian Giacomo Dal Forno e Cesare Maggi alla terza edizione del premio Cremona, con il dipinto La consegna, acquistato dalla G.I.L. di Milano. Alla Biennale di Venezia del 1942, nella sezione delle opere ispirate alla guerra, presentò una vasta tela rappresentante il duca d’Aosta. Realizzato nell’ultimo piano del liceo Gioia di Piacenza, prima che il principe morisse in Kenya prigioniero degli inglesi il 3 marzo 1942, il dipinto gli valse un premio di 10.000 lire e fu riprodotto in cartoline quale immagine celebrativa di un eroe italiano. Durante la guerra, Ricchetti sfollò a Bettola con la famiglia (si era sposato nel 1930), tornando spesso allo studio a Piacenza in via Sopramuro. Nel 1942 partecipò alla mostra organizzata dalla federazione fascista presso il palazzo Gotico di Piacenza; nel 1943 inviò dipinti alla Quadriennale di Roma; nel 1945 presentò venticinque opere nelle sale della Ricci Oddi – disallestite per timore dei bombardamenti – insieme con altri colleghi piacentini.

La caduta del regime non compromise la sua produttività. Prese infatti parte a numerosi appuntamenti di rilievo nazionale nel dopoguerra, esponendovi sempre più spesso opere a carattere sacro: la Biennale di Venezia (1946), la I Mostra nazionale di pittura di Bellagio (1946), la I Mostra nazionale di pittura premio Modena (1947), la Mostra nazionale del disegno e dell’incisione moderna di Reggio Emilia (1947), la Mostra nazionale d’Appello presso la Galleria del Sagrato a Milano (1948), la Promotrice di Torino (1948), la Mostra d’arte sacra dell’Angelicum di Milano (1948), la Prima Biennale d’arte sacra a Novara (1948). Non mancarono le personali e le collettive a Piacenza, Verona, Bologna, Milano. Nel 1952, alla seconda personale allestita presso la galleria Gussoni di Milano, presentò numerosi dipinti di controllata solidità strutturale, armonia tonale più intima e maggior ricerca dell’essenziale. Non mancarono nuovi riconoscimenti: vinta nel 1954, ex aequo con Giacomo Bertucci, l’estemporanea organizzata in piazza Cavalli a Piacenza, fu insignito l’anno successivo della medaglia d’oro di piacentino benemerito per iniziativa della Famiglia Piasinteina, storica associazione locale.

A partire dagli anni Cinquanta, alla produzione da cavalletto affiancò sempre più quella murale: nel 1952 illustrò su una parete della sala del Consiglio della Banca di Piacenza (in seguito a lui intitolata) una Sintesi storica della città di Piacenza. In questa fase convogliò le sue energie nella pittura sacra, soprattutto murale, in un ritmo incalzante e con punte di notevole qualità. Allontanatosi dal neobarocco praticato negli anni Venti e Trenta (chiese di S. Maria della Pace, di S. Lazzaro Alberoni e S. Teresa a Piacenza), si avvicinò ai pittori italiani del Quattrocento, mettendo a punto uno stile sobrio e sintetico, in grado di veicolare un’accentuata emotività, attraverso una rappresentazione didascalica del Vangelo e delle vite dei santi. Se si esclude la Via Crucis, dipinta nel 1946 per S. Giovanni in Canale a Piacenza e rifiutata perché ritenuta troppo «moderna» (finì a S. Luigi a Tor de’ Cenci a Roma), le sue realizzazioni godettero di buona fama. In una ventina di anni, dal 1954 al 1972, intervenne, con raffigurazioni più o meno estese, in quasi trenta edifici religiosi tra città e provincia.

Durante la sua lunga carriera, alla pittura murale – prevalentemente di carattere sacro – e a quella da cavalletto – nei generi della natura morta, del paesaggio e del ritratto – affiancò la plastica. Oltre alle opere per il cimitero cittadino, si ricordano, tra gli esiti più significativi a Piacenza: il ritratto postumo di Giuseppe Ricci Oddi per l’omonima galleria (1937); la testa in bronzo del maestro Amilcare Zanella per il conservatorio Nicolini (1949); il gruppo a grandezza naturale con monsignor Francesco Torta che stringe a sé un fanciullo sordomuto e una bambina cieca per l’Opera pia della Madonna della Bomba (1951); la Madonna del Popolo per la base del monumento all’Immacolata in piazza Duomo (1954); il busto in bronzo di Egidio Carella per i giardini pubblici di fronte alla stazione (1961); il monumento ai caduti per Bettola, unica sua realizzazione dedicata a questo tema (1965).

Ricchetti si dedicò estemporaneamente anche al restauro: nel 1938 intervenne sugli affreschi quattrocenteschi della cappella del castello di Gossolengo; nell’estate del 1952 gli furono affidati alcuni dipinti di Giovanni Evangelista Draghi del Museo civico di Piacenza. Duratura fu la sua attività didattica: tra il 1934 e il 1935 insegnò arte decorativa murale e plastica presso la regia scuola tecnica industriale S. Coppellotti di Piacenza; dal 1943 al 1947 impartì lezioni di disegno architettonico e ornamentale all’istituto privato Vittorio Alfieri; nel 1949 affiancò Paolo Maserati alla cattedra di plastica presso l’Istituto Gazzola, e in seguito tenne lezioni di figura ai corsi serali.

Nel 1967, in occasione del suo settantesimo compleanno, l’associazione Amici dell’arte allestì un’antologica a cura di Ferdinando Arisi, suo maggiore esperto. Per dieci anni Ricchetti continuò a lavorare ed esporre: la sua tavolozza si schiarì, i contrasti luministici si attenuarono, il rilievo volumetrico si ridusse. L’ultima personale fu a Bettola nel settembre del 1973. Morì a Piacenza il 30 novembre 1977 nella sua abitazione in via Gattorno. A cento anni dalla nascita, nel 1997, si tenne a palazzo Gotico un’importante retrospettiva – anch’essa affidata ad Arisi – che ne ripercorse l’intensa e variegata attività.

Fonti e Bibl.: La mostra artistica, in Libertà, 19 novembre 1909; Una bella speranza dell’arte, in Libertà, 1 gennaio 1912; G. Munaro, Il «premio Cremona». Rassegna d’arte nuova e fascista, in Emporium, XLV (1939), 7, pp. 54 s.; Annuario della pittura italiana, a cura di G. Mandel, Milano 1965, p. 459; Scultura italiana contemporanea, a cura di Id., Milano 1965, p. 277; La galleria d’arte moderna Ricci Oddi, a cura di F. Arisi, Piacenza 1967, pp. 324-326; Id., L. R., Piacenza 1967; G. Pantaleoni, 50 anni di pittura in una «antologica» di L. R., in Selezione Piacentina, novembre 1967, pp. 47-53; Id., L’eccezionale successo della mostra di Ricchetti, in Selezione piacentina, gennaio 1968, pp. 57-60; A.M. Comanducci, Dizionario illustrato dei pittori, disegnatori e incisori italiani moderni e contemporanei, IV, Milano 19734, pp. 2701 s.; F. Arisi, Cose piacentine d’arte e di storia, Piacenza 1978 (in partic. I settant’anni di L. R. (1897-1967), pp. 306-338; Soressi e Ricchetti rievocano la poesia del tempo perduto, pp. 428-430); Un pezzo del «premio Cremona» donato alla Galleria Ricci Oddi, in Libertà, 16 marzo 1979; F. Achilli - M. Molinaroli, Piacenza in camicia nera, Piacenza 1983, pp. 203-209; F. Bernocchi, L. R. al «premio Cremona», in Strenna piacentina, 1983, pp. 15-19; Galleria d’arte moderna Ricci Oddi, a cura di F. Arisi, Piacenza 1988, pp. 385-387; F. Arisi - L. Mezzadri, Arte e storia nel collegio Alberoni di Piacenza, Piacenza 1990, pp. 32, 35, 37, 39, 44 s., 47, 49-51, 53, 104, 307, 364, 416-422; F. Arisi, L. R. Opere dal 1917 al 1950 (catal.), Piacenza 1996; F. Arisi, L. R., Piacenza 1997, passim (con ricca bibliografia precedente); S. Fugazza, Arte e Storia. L. R. alla prima edizione del premio Cremona (1939), Piacenza 2003; A. Malinverni, 30 x 30 = ’900. Trenta opere di artisti piacentini del Novecento per il trentennale del Rotary Farnese, Piacenza 2016, pp. 12-15, 54.











             





Luciano Ricchetti (Piacenza, 27 aprile 1897 – Piacenza, 30 novembre 1977) è stato un pittore italiano. Influenzato dal movimento Novecentista, vince il premio per il ritratto nella Biennale di Venezia del 1932 e con l'opera Modelle in riposo

Mario Acerbi 800 italiano

Mario Acerbi  Dal 1900 al 1909 frequenta con profitto la Civica Scuola di Pittura di Pavia, allievo di Carlo SaraRomeo Borgognoni e di Giorgio Kienerk, aggiudicandosi nel 1907 il Premio Lauzi e nel 1910 il Premio Frank (in seguito annullato per vizio procedurale). L'insegnamento del padre Ezechiele, noto paesaggista ed esponente di punta della cultura artistica pavese, è determinante nella sua formazione, improntata a un linguaggio pittorico di matrice naturalista. Dal 1908 è presente alle esposizioni di Torino e Milano con un repertorio di paesaggi, ritratti e fiori realizzati sulla scorta dei modelli paterni di maggior successo commerciale. Si distingue come ritrattista per committenze milanesi e pavesi, ottenendo incarichi ufficiali da diversi enti lombardi per i quali realizza dipinti storici e soggetti religiosi ad affresco.



il   ticino di Mario Acerbi

Acerbi Mario *

ACERBI MARIO
Pavia 1887 - Pavia 1982
Ebbe come primo maestro il padre Ezechiele, il cui influsso è avvertibile in tutta la sua opera. Dal 1900 al 1909 studiò con R. Borgognoni, C. Sara e G. Kie nerk alla Civica Scuola di Pittura di Pavia. Nel 1908 ottenne il premio Lanzi con Amore all'arte e inviò alla Promotrice di Torino Operazione chirurgica. Nel 1914 espose a Milano alla Permanente, e nel 1920 all’Accademia di Brera. L’uso del colore secondo lo stile della scuola lombarda è visibile nei paesaggi (Interno della Certosa di Pavia, La piazza del re Sole), nei ritratti (Ritratto dell'avvocato Radliski, Milano, Pinacoteca di Brera; Emilio Borromeo, Carlo Servolini, Milano, Quadreria dell'Ospedale Maggiore) e nei quadri di genere (Comunicato Cadorna, Il carradore). Affrontò il genere storico con Le offerte per la resistenza (Milano, Galleria d’Arte Moderna) e la pittura sacra nella pala La lezione di Contardo Ferrini (Pavia, chiesa del Carmine) e negli affreschi della chiesa di San Luca (1832). Realizzò anche miniature su avorio.








Ezechiele Acerbi 800 italiano

autoritratto  di Ezechiele Acerbi


ACERBIEzechiele. - Nato a Pavia il 10 apr. 1850, studiò pittura nella scuola civica locale con G. Trécourt, che lo tenne in grande stima e lo mise in relazione col Piccio. Vinse nel 1866 il legato Cairoli, nel 1873 il premio Franck col quadro Distribuzione dei medicinali a S. Corona,nel 1877 il concorso Arnaboldi con L'arrivo del Barchetto a Pavia.Il suo Autoritratto (1881), conservato alla scuola civica di Pavia, testimonia del suo primo stile legato a quello del Piccio e del Trécourt. Sono di questo periodo pure i ritratti della signora Letizia Campari, del conte San Giuliani, del signor Lanfranchi. Visse molti anni a Milano dando lezioni, dipingendo ritratti, scene di genere, ventagli. Tornato a Pavia, si dedicò, nell'ultimo periodo soprattutto, a ritrarre scene caratteristiche della vita della sua città. Espose alle mostre della Permanente di Milano e di Torino e numerose volte a Pavia. In quest'ultima città morì il 20 febbr. 1920.
 tarda età ricorrere occasionalmente al lavoro di barbiere della domenica o di fotografo ambulante.

ACERBI EZECHIELE
Pavia 1850 - 1920
Nipote del pittore P. Massacra e proveniente da una famiglia modestissima, frequentò dal 1863 la Civica Scuola di Pittura di Pavia, allievo di G. Trécourt, che lo avviò all'uso dei colori puri. Nel 1866 vinse il legato Cairoli, nel 1873 il premio Frank con il dipinto La distribuzione dei medicinali a Santa Corona (Pavia, Museo Civico) e, nel 1877, il premio Arnaboldi con L’Arrivo del barchetto a Pavia. Si trasferì in seguito a Milano, dove si mantenne dipingendo ritratti e ventagli e dando lezioni presso famiglie della buona società. Nelle prime opere (Ritratto di Bullè, Ritratto di Letizia Campari e Autoritratto, 1881, Pavia, Civica Scuola) si riconosce ancora l’influenza del Trécourt, mentre nella produzione seguita al ritorno a Pavia emerge uno stile più personale e istintivo, di grande intensità di colore (Ritratto di Ernesta Massacra, Ritratto della madre). In questi modi basati sulla pennellata rapida e sul vivace impasto dei colori eseguì paesaggi, macchiette cittadine, quadri di genere (La balia di Delia, Serio, Se vuoi il ritratto, Il veterano, Ore di quiete, La ricreazione di una monaca) e la serie di vedute di Pavia e del Ticino. Espose tra il 1878 e il 1906 alla Promotrice di Milano e tra il 1878 e il 1909 a quelle di Torino e di Pavia. Condusse una vita di ristrettezze economiche, dovendo anche in tarda età ricorrere occasionalmente al lavoro di barbiere della domenica o di fotografo ambulante.










martedì 19 novembre 2019

GIOVANNI FRANCESCO BEZZI detto NOSADELLA

Questa testa richiama alla memoria il gusto naturalistico in voga a Roma nel xvII secolo,con echi che evocano le fisionomie di Pier Francesco Mola,ma con una maggiore sensibilità espressiva,prossima a esiti partenopei. La personalità  del pittore è stata recentemente indagata da Andrea De Marchi e da Allessandro Delpriori e Massimo Francucci,mentre le prime indicazioni biografiche di Nicola Pio,lo dicono nato a Roma 1611 ,e allievo di Francesco Sacchi per poi divenire collaboratore di Mola,di cui perfezionandosi si curò a imitarne lo stile E' presumibile pensare che la tela in esame sia  da collocare nel periodo  della  maturitàdel pittore.
Olio su tela, cm 43X32


Giovanni Francesco Bezzi, il cui curioso appellativo di 'Nosadella' gli venne dal nome della strada dove risiedeva, si formo' con Pellegrino Tibaldi e divenne uno dei suoi migliori interpreti, raffinandone tuttavia il michelangiolismo senza distaccarsi dall'intellettualismo della maniera. La tela qui presentata e' certamente uno studio, ed e' possibile ad esempio confrontarlo con il volto del San Giuseppe visibile nella 'Presentazione al Tempio' dell'Allen Memorial Museum dell'Oberlin College, con il Re Magio inginocchiato del disegno raffigurante 'L'Adorazione dei Magi' conservata al Metropolitan Museum (fig. 1) o con il San Giuseppe della 'Sacra Famiglia con San Giovanni Battista' del Museo di Indianapolis.
Bibliografia di riferimento:  allo studio  di questo  volto si è ispirato nell'800 il famoso ritrattista emilio Pasini


Volto di anziano di Emilio Pasini olio di proprietà elioarte





IL PALAZZO REALE DI MILANO OSPITA UNA IMPONENTE MOSTRA ANTOLOGICA DEDICATA A GIORGIO DE CHIRICO

A quasi cinquant’anni di distanza dalla grande mostra antologica del 1970, Palazzo Reale di Milano celebra il genio di Giorgio de Chirico (Volos, 1888 – Roma, 1978), l’inventore della pittura metafisica, con una straordinaria mostra retrospettiva che raccoglie la sua carriera in un serrato e intenso percorso suddiviso in otto capitoli che vanno dagli esordi agli splendidi dipinti degli ultimi anni di attività.
La mostra, curata da Luca Massimo Barbero, promossa e prodotta da Comune di Milano-Cultura, da Palazzo Reale, da Marsilio e da Electa, in collaborazione con la Fondazione Giorgio e Isa de Chirico, nasce da un lungo lavoro di ricerca e di programmazione che permette di ammirare capolavori provenienti da grandi musei italiani internazionali e da importanti collezioni private.

METAFISICA CONTINUA














Il pubblico potrà dunque apprezzare la grandezza di un artista che ha costantemente rinnovato la sua pittura portando avanti una ricerca di uno spessore e di una profondità che hanno pochi eguali nella storia dell’arte del XX secolo, se si pensa che, oltretutto, de Chirico è stato capace di dense riflessioni filosofiche e di grandi opere letterarie, come il suo romanzo Ebdòmero del 1929. La mostra nasce anche per evidenziare con eloquenza la grandezza ininterrotta dell’opera di de Chirico in tutte le sue fasi, in quella che Maurizio Calvesi, uno dei massimi studiosi dell’artista, ha definito “Metafisica continua”, sviluppata nelle sue diverse declinazioni, a partire dalla nascita della Metafisica a Firenze nel 1910, dalle Piazze d’Italia e dagli Interni ferraresi, fino ai manichini, ai Gladiatori, alle ricerche sulla materia pittorica, ai suoi paesaggi e alle nature morte “barocche”, al dialogo con i grandi maestri della storia dell’arte e alle ultime opere neometafisiche.
Questo imponente risultato, dovuto principalmente alla qualità del lavoro di Luca Massimo Barbero e dello staff di Palazzo Reale, si inserisce così perfettamente nella linea operativa e teorica della Fondazione Giorgio e Isa de Chirico, che sostiene proprio l’idea della “Metafisica continua”, in una visione rigorosa e innovativa del lavoro dell’artista, finalmente liberata da vecchi e indifendibili stereotipi e analizzata nella sua straordinaria complessità.










    Così lo Spirito del mondo si irradiò dall'arte italiana

    Nel XX secolo il nostro Paese perse il primato geografico nella pittura. Ma non quello ideale



    Per spiegare il senso profondo di questo nuovo volume, dedicato al Novecento, occorre risalire al pensiero del filosofo Georg Wilhelm Friedrich Hegel: lo Spirito del mondo si manifesta in ogni epoca in un determinato luogo.
    E dunque, per tornare nel nostro contesto, lo Spirito del mondo appare nel Trecento a Padova, con Giotto. È ancora a Padova nel Quattrocento, con Donatello e Mantegna, anche se il baricentro è prevalentemente a Firenze. Nel Cinquecento è a Roma, e la sua forza perdura anche nel Seicento, con Caravaggio e con il Barocco. Nell'età neoclassica inizia a vacillare il primato dell'Italia, e si annunciano fenomeni molto rilevanti in Francia, i quali poi irrompono, alla fine dell'Ottocento, con gli impressionisti. L'Italia perde lo Spirito del mondo.
    Dal Trecento all'Ottocento, fino a Tiepolo e Canova, l'Italia è stata il luogo privilegiato della manifestazione dello Spirito del mondo, che poi, improvvisamente, si trasferisce stabilmente in Francia, dove continua a riprodursi fino agli inizi del Novecento. Modigliani non sarebbe Modigliani se fosse accaduto a Livorno, come è avvenuto per i macchiaioli, o per un pittore come Oscar Ghiglia, grande quanto Modigliani però, purtroppo, vissuto in una terra da cui lo Spirito del mondo s'era allontanato.
    Modigliani è un italiano che porta lo spirito italiano, la consapevolezza della tradizione italiana a Parigi. Se le maschere africane primitive che popolavano la casa di Gertrude Stein ispirano Picasso, i riferimenti di Modigliani (...) sono altri primitivi, cioè Giotto, Simone Martini, Ambrogio Lorenzetti. La storiografia italiana li definisce primitivi nel senso che precedono cronologicamente Raffaello, con un riferimento molto preciso alla lunga storia dell'arte italiana che ho tentato di raccontare nei volumi del Tesoro d'Italia.
    Insomma, se Modigliani avesse lavorato a Livorno, e si fosse ispirato al solo primitivismo italiano, non avrebbe avuto la stessa eco, come dimostra la vicenda dei macchiaioli o di Ghiglia; e probabilmente analogo discorso si potrebbe fare per Picasso: se fosse rimasto in Spagna e non avesse conosciuto Parigi, sarebbe stato Picasso? Tra Otto e Novecento tutto accade a Parigi, Modigliani ma anche Boldini (...), e continua ad accadere con il Cubismo e il Surrealismo.
    Improvvisamente, però, si interrompe anche la fortuna di Parigi. Negli anni Cinquanta del dopoguerra lo Spirito del mondo si sposta in America, con Jackson Pollock, i grandi pittori dell'Informale e, nel 1958, con la Pop Art.
    E l'Italia? Piero della Francesca accade nel 1450, ma ritorna ad accadere nella consapevolezza dei pittori francesi come Seurat, che è il primo che ne comprende pienamente la grandezza dopo anni di oblio; e, ancora, Piero riaccade con il Cubismo e con Morandi. Senza Piero della Francesca sarebbe impensabile Balthus. Quindi l'accadere in un luogo dello Spirito del mondo è un accadere per sempre, vuol dire eternarsi. Uno dei momenti fondamentali della pittura italiana del Novecento è (...) Valori plastici, un movimento che intende ritrovare proprio quel senso della misura, dell'ordine e della prospettiva che è nato nel Quattrocento.
    Il Futurismo internazionalizza l'arte italiana del Novecento, muovendo verso la Francia e in Russia. Eppure per il Futurismo vale quanto abbiamo indicato per Modigliani: il Manifesto futurista viene pubblicato su Le Figaro, a Parigi, pur essendo un pensiero nato a Milano. La storia dell'arte del Novecento è un percorso altalenante tra fenomeni che sono ormai delocalizzati rispetto all'Italia, che deflagrano altrove ma restano consapevoli dello spirito italiano, come avviene per i pittori futuristi o per Giorgio de Chirico, un artista greco, diventato italiano, che vive a Parigi. De Chirico inventa la metafisica, come lui stesso la definisce, che è una reinterpretazione della grande tradizione italiana, a partire da Piero della Francesca, dalla statuaria greca e romana e da Ferrara, altra capitale del Rinascimento.
    Quando arriviamo al ventennio fascista è tempo di un rappel à l'ordre che, in Italia, si incarna in Margherita Sarfatti, controversa e straordinaria donna, amante del Duce, ebrea, che il Duce stesso in seguito rinnegò. Margherita Sarfatti inventa Novecento, che è un momento preciso in cui a Milano si trova un gruppo di artisti che rinnovano la grandezza del Quattrocento.
    Il percorso di questo libro rende conto dunque di un intreccio di pulsioni, fatto di moti in avanti e arretramenti, di futuro e passato. Un libro che si avventura nel genio inquieto del Novecento, per far capire come, in un secolo in cui l'Italia non è più il primo paese per l'arte, ci sono però artisti formidabili, che a volte hanno varcato i confini nazionali, ma spesso non hanno conosciuto risonanza mondiale: degli uni e degli altri cerco di rendere conto e di dare testimonianza.



    Il filosofo de Chirico e la maledizione dei falsi

    Riccardo Dottori accomuna l'artista a Kant e Schopenhauer. Ma non tutti cercano la verità...


    Gli studi su De Chirico avanzano e, come non è mai capitato per un pittore, lo esaminano come un filosofo che abbia illustrato i suoi concetti con le figure invece che con le parole. Alla esegesi di de Chirico si applica oggi Riccardo Dottori (Giorgio de Chirico.
    Immagini metafisiche, La nave di Teseo) prendendo il testimone di Jole de Sanna, sovrana interprete del Pictor optimus. Oltre la critica, il filosofo Dottori parte da una riflessione di de Chirico che indica il mistero nascosto nella realtà: «mi accorsi che c'è una folla di cose strane, sconosciute, solitarie, che possono essere tradotte in pittura: vi ho riflettuto a lungo. Allora cominciavo ad avere le prime rivelazioni». Osserva Dottori, davanti a Il canto d'amore nel quale Magritte disse che «l'artista aveva voluto rappresentare il pensiero»: «è qui che de Chirico introduce il concetto di rivelazione, ripreso da Schopenhauer, che lo aveva ricondotto al concetto di genio; Kant considerava il genio il favorito della natura, dalla quale aveva avuto il dono, proprio dalla natura stessa, di creare delle forme senza seguire alcuna regola. In modo simile (...) lo considera anche Schopenhauer, dato che lo vede come colui che sa estraniarsi dal mondo esterno e nella sua riflessione in se riesce a concepire delle idee veramente universali».
    Su questa strada si era mossa la de Sanna. Di lei dice persuasivamente Cristina Casero: «L'aspetto che più colpisce pensando a Jole de Sanna - soprattutto oggi, col distacco che il tempo ci concede, anche a causa della sua veramente prematura scomparsa - è quella pacata autorevolezza che caratterizzava il suo modo di essere, come donna prima ancora che come studiosa e critica d'arte. Per quanto fosse appassionata, il suo comportamento era di fatto schivo, seppur estremamente aperto e diretto, ma soprattutto i suoi modi erano certamente scevri da quella narcisistica volontà di protagonismo che, invece, purtroppo connota la natura di molti dei personaggi attivi nel mondo dell'arte. Ha vissuto tra noi come se vivesse altrove: era l'impressione che ti lasciava. A metà tra invenzioni poetiche come Ariel e Clorinda, è stata, a suo modo una sorta di figura mistica: era, a tratti posseduta da impeti di passioni e di dedizioni». È singolare che di fronte al pittore da lei più amato, oggi troviamo il sapiente e distaccato, ma intensamente applicato, Riccardo Dottori. Per lui la Metafisica ha lo stesso peso del pensiero di Heidegger, in una esplicita reinterpretazione di Eraclito, e ben oltre il formalismo astratto di Kandinsky, per quanto evoca con una potenza simbolica senza precedenti. E singolare che di un pittore così filosofico e complesso vi siano tante opere contraffatte da falsari che banalizzano quello «stato d'animo», unheimliche, di cui parla anche Heidegger già nel suo primo scritto, Il concetto di tempo, del 1920, e poi nella sua opera fondamentale Essere e tempo, e infine nell'altra opera che coincide con la tematica di de Chirico, Che cos'è metafisica? E non soltanto esecutori, ma anche pseudo esegeti o sedicenti critici d'arte che hanno prevalentemente fatto il mestiere di mercanti. Tra i venditori di opere false nell'ultimo periodo della complessa storia della falsificazione dell'arte di Giorgio de Chirico, spicca il nome di Paolo Baldacci, autore di libri e curatore di mostre, il quale ha venduto e fatto vendere, consapevole della loro falsità, numerosi dipinti firmati «Giorgio de Chirico», di altra epoca. La responsabilità penale del Baldacci è stata accertata dalla Magistratura milanese, prima dal Tribunale Ordinario di Milano - Sezione settima penale, nel marzo del 2009 e poi dalla Corte d'Appello di Milano - Sezione quarta penale, con sentenza del luglio 2013 passata in giudicato. La sentenza della Corte d'Appello, pur applicando a Baldacci l'istituto della prescrizione, nel frattempo maturata, ha accertato con ampia e analitica motivazione la piena consapevolezza da parte dell'imputato della falsità delle opere da lui vendute, confermandone la confisca già disposta in primo grado.
    Il Catalogo generale di de Chirico, a cura di Claudio Bruni Sakraischik (Electa, Milano 1971-1987), è composto da otto volumi nei quali sono riprodotte 2638 opere raccolte in tre tomi divisi per epoca: 1909-1930; 1931-1950; 1951-1974. Il sesto volume risale al 1976 e fu l'ultimo pubblicato vivo il Maestro. Il settimo volume, pubblicato nel 1983, beneficiò della consulenza di Wieland Schmied e Giulio Briganti e l'ottavo (1987) della consulenza di Wieland Schmied e Antonio Vastano. Sulla base di quel Catalogo, il Tribunale penale di Milano nel marzo del 2009 aveva condannato Baldacci alla pena di 20 mesi di reclusione. Nel corso delle indagini, la magistratura inquirente aveva disposto il sequestro anche di altre opere riferite a de Chirico dal Baldacci. Queste, nonostante le ricerche, non sono ancora state reperite e sono tuttora in circolazione. È da porre in particolare rilievo il fatto che, tra i dipinti oggetto del provvedimento di sequestro, spiccava un colossale falso metafisico del 1913, del potenziale valore di milioni di euro, dal titolo Die Melancholie der Abreise (La melanconia della partenza). Il falso fu esposto nella mostra di Düsseldorf della quale Baldacci è stato uno dei quattro curatori («Die Andere moderne. De Chirico-Savinio», al Kunstsammlung Nordrhein-Westfalen di Düsseldorf, 2001). Gli altri curatori erano Maurizio Fagiolo dell'Arco, Wieland Schmied e Gerd Ross. Quest'ultimo, interrogato dagli inquirenti riguardo tale opera, ha risposto: «Si trattava di un quadro che, prima di quella mostra, non era conosciuto. Nessuno di noi aveva visto l'originale. Solo Baldacci lo aveva visto e proposto per l'esposizione». Aggiungeva poi: «Non ricordo chi sia il proprietario del quadro. Forse veniva da Israele: credo che poi sia stato venduto ad un gallerista di New York e che si trovi attualmente in Svizzera». Ovviamente, non avendo fornito le informazioni in suo possesso, l'opera non poté essere sequestrata ed è tuttora in circolazione.
    Wieland Schmied, l'unico studioso tedesco di Giorgio de Chirico degno di questa qualifica, amico personale del Maestro e curatore della indimenticabile mostra milanese del 1970, alcuni mesi prima della sua morte, avvenuta il 22 aprile 2014, ha confermato per iscritto, in data 31 ottobre 2013, non soltanto che tale dipinto era falso, ma anche che era stato inserito nella mostra a sua insaputa. Vero e falso in de Chirico si sovrappongono, in danno della verità del suo pensiero, interpretato da chi ne conosce e ne esalta soltanto il valore materiale, e ne umilia il pensiero filosofico, approfondito da Dottori. Spirito contro materia.