l dipinto raffigura un'odalisca[6] in un harem nell'atto di agitare un ventaglio di piume di pavone. La donna è adagiata languidamente su un letto di stoffa azzurra, ove sono appoggiati una pelliccia bruna, un cuscino, una coperta gialla, un lenzuolo bianco e dei gioielli; all'estrema destra, vi sono invece un bruciaprofumi e una lunga pipa. Se si esclude il suo turbante, l'odalisca ritratta è completamente nuda e voltata di schiena, e descrive con il proprio corpo una flessuosa mezzaluna rosata; viene ripresa nel momento stesso in cui ruota la testa per osservare lo spettatore. La pelle della figura femminile risalta dal fondo scurissimo della stanza, parzialmente coperto da una tenda azzurra ricamata che tuttavia lascia intravedere il muro di fondo e due grandi bauli.[3]
L'opera segue i principi della pittura neoclassica, quali la precisione "classica" della forma, e quelli del manierismo, come dimostrano le dimensioni volutamente sproporzionate del soggetto: le sue anche sono infatti troppo grandi mentre il collo è estremamente lungo. La lunghezza del suo corpo, dovuta all'aggiunta di tre vertebre, rende la figura più voluttuosa e sensuale. Il pittore fu inoltre ispirato agli ideali di perfezione concepiti da Raffaello Sanzio.[2] Nonostante queste premesse, La grande odalisca segnò il primo avvicinamento del pittore al romanticismo, dal quale riprese il gusto per l'esotico.[7]
Il dipinto cita numerose altre opere: la testa dell'odalisca riprende i soggetti femminili tratti dallo Sposalizio della Vergine e dalla Madonna del Belvedere di Raffaello, mentre la posizione della donna cita il tema della Venere distesa, come Venere di Urbino di Tiziano, dalla quale Ingres riprese il materasso semidisfatto, analogamente a come fece, anni dopo, Manet nella sua Olympia. In particolare la posa di spalle ricorda la Venere Rokeby di Diego Velázquez, con la quale ha in comune anche le deformazioni anatomiche. Sempre da un'opera di Raffaello, La Fornarina, Ingres riprese in controparte il turbante e il gioiello della donna,[7] mentre la presenza di combinazioni di colori freddi, gli arti estesi della donna e la sua testa piccola omaggiano il Parmigianino.
Vestita di semplice bellezza, “La grande odalisca” (La Grande Odalisque, 1814) di Jean Dominique Ingres (1780 – 1867) si circonda di pregiate stoffe, nella morbidezza di un letto languidamente reso nel disordine di un evento che non c’è dato conoscere. Una fisicità bianca e tonicamente tornita, nell’eleganza di un volto tristemente giovane e bello, dove il corpo è esposto, esaltato nell’avvenenza di una scelta estetica che richiama gli echi delle superbe veneri cinquecentesche.
Vestita di semplice bellezza, “La grande odalisca” (La Grande Odalisque, 1814) di Jean Dominique Ingres (1780 – 1867) si circonda di pregiate stoffe, nella morbidezza di un letto languidamente reso nel disordine di un evento che non c’è dato conoscere. Una fisicità bianca e tonicamente tornita, nell’eleganza di un volto tristemente giovane e bello, dove il corpo è esposto, esaltato nell’avvenenza di una scelta estetica che richiama gli echi delle superbe veneri cinquecentesche.
Note ean-Auguste-Dominique Ingres nacque a Montauban, in Francia, primo di sette fratelli (cinque dei quali sono sopravvissuti al periodo neonatale). Il padre, Jean-Marie-Joseph Ingres (1755–1814), era un decoratore e miniatore non privo di talento; la madre, Anne Moulet (1758–1817), era invece la figlia quasi analfabeta di un parrucchiere.[1] La formazione di Ingres avvenne nell'ambito artistico francese sotto la guida del padre, che fu in grado di valorizzare il precoce talento del figlio introducendolo all'esercizio del disegno. A partire dal 1786 iniziò a seguire le lezioni dell'École des Frères de l'Éducation Chrétienne locale; Ingres frequentò la scuola sino a quando venne chiusa a causa di alcuni tumulti popolari che già preludevano allo scoppio della Rivoluzione Francese.[2]
Nello stesso anno Ingres si trasferì con la famiglia a Tolosa, dove proseguì la sua formazione e conobbe illustri personaggi. Presso la Académie Royale de Peinture, Sculpture et Architecture, dove si era iscritto, egli studiò sotto la guida dello scultore Jean-Pierre Vigan, del paesaggista Jean Briant e del pittore neoclassico Guillaume-Joseph Roques. L'amore contagioso di Roques per l'arte di Raffaello avrebbe influenzato in maniera decisiva il giovane Ingres, che si accostò affascinato allo studio della Roma delle antichità, dove venti anni addietro Jacques-Louis David aveva iniziato la rivoluzione neoclassica in pittura. Contestualmente, Ingres venne avviato allo studio della musica con l'aiuto del violinista Lejeune: rivelò doti musicali notevoli, tanto che diventò secondo violino dell'orchestra municipale di Tolosa. Da questa sua seconda attività artistica è nato un modo di dire molto diffuso in francese, «violon d'Ingres» [violin d'Ingres], con cui si indica una passione in cui si eccelle coltivata parallelamente alla propria attività principale.[3]
A Parigi[modifica | modifica wikitesto]
Dopo aver riportato il primo premio di disegno all'Accademia di Tolosa nel 1797, Ingres decise di trasferirsi a Parigi per studiare arte al seguito dell'illustre pittore neoclassico Jacques-Louis David, in quell'anno assorbito nell'esecuzione del gran quadro delle Sabine. Giunto nella capitale francese poco prima del 18 fruttidoro dell'anno V (4 settembre 1797), Ingres apprese in questo ambiente gli ideali neoclassici e sviluppò la sua particolare armonia delle linee tenui e nell'utilizzo del colore.
Intanto, nel 1800, Ingres concorse per il prix de Rome, una borsa di studio che garantiva ai vincitori un periodo di perfezionamento artistico presso la città Eterna; pur risultando secondo (David, infatti, predilesse un altro suo allievo per evitare che partisse per il servizio militare), l'artista riuscì comunque ad aggiudicarsi l'ambito premio qualche anno dopo con l'esecuzione de Gli ambasciatori di Agamennone. Ingres, tuttavia, poté recarsi a Roma solo nel 1806, quando lo stato francese poté finalmente accumulare fondi sufficienti per finanziare il viaggio.
Trasferitosi in una cella del convento sconsacrato delle Cappuccine a Parigi, dove visse in compagnia dell'amico Lorenzo Bartolini, Ingres acquisì una certa notorietà dipingendo ritratti: di questi, si segnalano La famiglia Rivière, La bella Zélie, Il primo console, e l'Autoritratto. Come raramente accadde negli artisti della sua generazione, inoltre, Ingres studiò assiduamente i maestri del passato: oltre agli italiani quali Andrea Mantegna e Raffaello (suo punto di riferimento privilegiato), egli si formò anche sull'esempio della tradizione pittorica fiamminga, ben rappresentata da Hans Holbein il Vecchio e Jan van Eyck. Fu proprio quest'ultimo una delle fonti d'ispirazione per il Napoleone in trono, completato nel 1806 e presentato al Salon dello stesso anno. L'opera, in cui il generale corso viene assimilato a un Giove onnipotente, fu da subito oggetto di critiche molto aspre e virulente, suscitate dalla mancanza di somiglianza del Napoleone ivi effigiato con il modello reale. Ingres, ricoperto di vituperi dalla stampa (che lo definì addirittura «pittore al chiaro di luna»), fortunatamente partì per Roma proprio in concomitanza con l'apertura del Salon, iniziando un vero e proprio esilio volontario destinato a durare diciotto ann
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