Da un racconto “Giustizia d’Isabella d’Aragona” storia calabrese del secolo XVI.
Conserviamo a questo fatto d’armi la denominazione di Battaglia di Seminara dataci dagli storici;ma dovrebbe invece intitolarsi Battaglia del Metauro o del Petrace per la località ove accadde.
Battaglia di Seminara
La battaglia di Seminara della quale ci intratterremo, famosa ai tempi in cui ebbe luogo,tale rimase in tutti gli storici di quell’epoca.
Regnava allora sul trono di Napoli Ferdinando II di Casa d’ Aragona;ed il popolo lo chiamava
pure col nome di Re Ferrante,e di Re Ferrandino pel grande affetto che gli portava, perché lo
aveva visto nascere,crescere e giocare fanciullo in mezzo ad esso.
Egli fu il penultimo Re della sua dinastia;la quale spassionatamente giudicata da taluni storici contemporanei, e malamente studiata dai successivi fu dipinta come nefasta e tirannica, mentre non fu punto tale; anzi, fu la dinastia più benemerita dei progressi del Reame e della Sicilia, come dimostreremo nel corso del nostro racconto.
Ferdinando II. si trovò sul trono di Napoli all’età di 25 anni, vivente ancora il padre suo Alfonso II, che aveva abdicato in suo favore in momenti difficilissimi.
Carlo VIII .d ’Angiò, Re di Francia,insinuato da Ludovico il Moro, che fu il più potente e pernicioso nemico di Casa d’Aragona, era sceso in Italia per conquistare, o , come diceva, per vendicare il Regno di Napoli ed era già alle porte della capitale, quando, i re aragonesi furono costretti ad abbandonarla; e si rifuggirono nell’ospitale e fedele città di Messina.
Quivi, non guari dopo,furono raggiunti dai soccorsi che essi avevano chiesto a Ferdinando il Cattolico Re di Spagna loro congiunto, e spediti sotto il comando del generale Consalvo da Cordova, che in quell’occasione ebbe il pomposo titolo di Gran Capitano.
Tali soccorsi furono di 6000 fanti e 6ooo cavalleggeri ben forniti di munizioni,su 14 galee di prima classe.
A queste forze Consalvo unì l’esercito che ancora restava fedele e poi i volontari locali
assoldati per aumentare le file e dei quali formò il Corpo dei Calabresi, e base delle sue operazioni
militari fece la stessa città di Messina.
Il giorno dopo il suo arrivo, il 2 Giugno 1495 Consalvo ed il giovane Re, assediarono Reggio, la
ebbero dopo breve combattimento la munirono di presidio e avanzarono nella Calabria per
riconquistarla .Il che, riuscì loro senza grande contrasto, per gli scarsi nuclei di soldati francesi trovati di presidio nei diversi luoghi, e quasi di trionfo in trionfo giunsero a Seminara ove si diceva che fosse un grosso esercito di francesi.
Seminara in quel tempo era una delle città principali dell’estrema Calabria.
Guarnita di una cinta di mura di forma circolare aveva due porte, una che si apriva a Sud e l’altra dalla parte opposta, a Nord; un castello nel mezzo,compiva le sue fortificazioni.
Sorgeva la città sopra un altipiano collinoso e godeva di un vasto e pittoresco orizzonte che si apriva da nord ad ovest a sud-ovest, presentando agli sguardi dello spettatore tutta l’estesa pianura detta allora Piana di San Martino circoscritta dalla catena degli Appennini che culminano ad Aspromonte,interrotta da luoghi abitati, la maggior parte dei quali oggi non esistono più; ma fra i quali primeggiavano come città munite di mura e fortificazioni: Terranova, una vera e bella città,da due vie lunghe e diritte incrociatesi nel mezzo,divisa in quattro rioni; Oppido una delle più antiche; S. Martino che dava nome alla Piana ; S.Giorgio e Cinquefrondi, quantunque oggi decadute dalla primiera grandezza.
Quando giunsero a poca distanza da Seminara, Ferdinando e Consalvo posero le tende sulla pianura che distendevasi a mezzodì della città. Lo Stato maggiore era costituito da uomini in quel tempo
famosi nelle armi quali erano i fratelli Andrea,Giovanni e Bartolomeo dei Conti di Altavilla,
Ugo de Cardona,Teodoro Trivulzio, Emanuele Bonavides, Pietro di Paz, ed altri.
A questi debbonsi aggiungere i feudatari spodestati dagli Angioini, uno dei quali era Marino
Correale duca di Terranova e Reggio governatore di Gerace.
Formato il campo, Consalvo ordinò che le squadre del Corpo dei Calabresi occupassero le alture,
i passi e le strade, perché esperti dei luoghi: e bande di spagnoli andassero a depredare la campagna, mentre egli stava sull’attenti in loro difesa. E ciò non tanto per depredare, quanto per provocare il nemico a venir fuori per conoscere l’ardire e il numero.
Alla loro volta i francesi informati della presenza del nemico,avevano temerariamente spinto
delle bande di ricognizione per conoscere le posizioni, il numero e il movimento degli spagnoli.
Or accadde che un distaccamento di francesi che con tutta circospezione si ritirava dalla ricognizione fatta, fu scoperto dai calabresi che guardavano i passi, mentre si spingeva su per un
profondo vallone che correva fra il piano su cui era il campo spagnolo e le alture della città.
Emettere un urlo terribile per prevenire i compagni e gli spagnoli,coronare le creste del vallone e chiudere da su e da giù i francesi ed imporre loro la resa ,fu tutto un momento solo.
Se non che i francesi non si sgomentarono e si spinsero ad aprirsi il passo con le armi.
Il rumore fu grande, e, venuto in conoscenza del comandante la guarnigione di Seminara, corre
in soccorso dei suoi con un distaccamento.
Arriva sul luogo del conflitto,mentre già gli spagnoli anch’essi correvano a rinforzare i calabresi,
in gran numero,e con un reparto di cavalleria. Avviene una terribile zuffa dei pochi francesi contro lo sproporzionato numero di calabresi e di spagnoli;i quali assiepati intorno a quel manipolo di
prodi stretti oramai come in un cerchio di ferro,intimarono loro la resa.
Cedettero i francesi superstiti,e Consalvo approfittando del momento propizio ordina un movimento generale delle truppe per assediare e prendere la città. Rullano i tamburi,squillano le trombe,la cavalleria comandata da Consalvo prende la carica,il Re segue con la fanteria,le grida e gi evviva al Re e agli spagnoli echeggiano per l’aria;e mentre simulavano di muovere all’assalto arrivati alla porta della città ergono bandiera parlamentare.
Poco dopo si leva dalla torretta del palazzo della città anche una stessa bandiera,indizio di accoglimento di proposta, si ode la campanella della torretta che convoca i cittadini e si apre
la porta per l’entrata dei delegati pel parlamento.
Erano questi:Andrea Altavilla, il Cardinale Ludovico d’Aragona e Marino Correale, seguiti da altri militi di riguardo; ed entrarono in città,in quella che il popolo correva come un torrente, da ogni via nella piazza centrale detta Piana dello Spirito Santo, per la chiesa omonima che ivi sorgeva, e dove aveva luogo il parlamento , mentre già voci di viva Aragona,viva Re Ferrandino,viva la Spagna si udivano di qua e di là.
Vennero innanzi i magistrati della città e, fatto segno che si doveva parlare, in un istante si ebbe
un generale silenzio.
Prende la parola Marino Correale, come quegli che era ben conosciuto, presenta i delegati e indi
prima il Cardinale e poi Altavilla e gli altri fecero intendere ai seminaresi che volessero preporre il Re Ferrandino, uomo di grande umanità e valore, il quale mentre regnava il padre avevano conosciuto per liberale e amorevole signore, ai francesi, uomini stranieri e crudeli , e che era venuto coll’esercito armato, con quella speranza che egli si credeva che i seminaresi, senza scordarsi punto dell’antica affezione verso il nome aragonese , subito aperte le porte dovessero ritornare a ubbidienza .
I discorsi degli oratori furono coronati da applausi generali inneggianti di viva al Re, agli Aragonesi, che giunsero fino a Consalvo. Questi allora fa andare i tamburi e le trombe, e si avvicina alla città facendo precedere i prigionieri francesi, in mezzo ai cavalleggeri spagnoli,a bandiere spiegate.
Era uno spettacolo commovente ed imponente ad un tempo, vedere quei duecento francesi prigionieri,dimessi in sembiante ma fieri, fieri sempre pel dovere compiuto, che lanciavano sguardi d’ira ,di stizza e fremiti di rabbia in mezzo ai nemici raggianti in viso per la vittoria, e che quale trofeo di guerra,menavano quei prodi e mettevano in vista gli arnesi di cui li avevano disarmati.
I magnati della città fra’ quali Carlo Spinelli duca di essa, spediscono una commissione di persone ragguardevoli alla guarnigione che si chiusa nel castello per invitarla a cedere alla forza degli eventi ed uscire dalla Città.
I pochi soldati di Francia che restavano in castello, facendo di necessità virtù, accettarono la resa; ma a condizione di avere i prigionieri colle armi, seppelliti i morti,curati i feriti sino a che sarebbero stati in grado di partire anch’essi con armi e bagaglio, ed essi uscire dalla città con l’onore delle armi. Queste estreme e dignitose condizioni furono volentieri accettate dal Re e da
Consalvo, specialmente perché questi ci teneva ad essere anco lui un <>.
Si fecero ritornare quindi i prigionieri dai loro compagni usciti all’uopo sullo spianato del castello
Ed immediatamente andarono via silenziosi, ma in cuor loro frementi, dalla porta di Nord detta Porta de Borgo, mentre gli Spagnoli entravano rumorosi per quella di Sud.
Precedevano i trombetti ed i tamburi alcuni mentovati illustri condottieri che tenevano in mezzo il Cardinal d’Aragona che veniva benedicendo colla destra il popolo, il quale a tal vista s’inginocchiava facendo ala e abbassando il capo per ricevere la benedizione.
Seguiva il corpo della cavalleria e dietro a questa il Re a cavallo sotto un ricco baldacchino portato dai magnati della città. Alla destra del Re pompeggiava Consalvo ed alla sinistra Carlo Spinelli,
tutti a cavallo coperti da smaglianti armature e cimieri con grandi piume svolazzanti e colle spade sguainate e poggiate sulla coscia,mentre il Re, con viso raggiante atteggiato a simpatico sorriso di compiacimento,rispondeva con cenni del capo agli applausi che si levavano alle stelle in suo favore e misti alla voce di abbasso,di maledizione ai francesi che venivano da coloro che li odiavano.
Seguiva dopo del Re il corpo dei prodi ed arditi calabresi, e la fanteria. Feste con luminarie e divertimenti furono fatte in quei giorni; e si pensava di procedere innanzi alle conquiste delle
Calabrie <>
E già all’uopo Ferrandino aveva mandato innanzi Alfonso d’Avalos per occupare e tener libero di
ostacoli le terre e le castella lungo il cammino verso quella città.
Tutto rideva innanzi agli spagnoli, ma dovevano quelle loro gioie esser di poca durata.
Il presidio francese che era andato via con gli onori militari da Seminara, si diresse nella stessa notte
a raggiungere il Comandante generale e Governatore militare che risiedeva in Terranova, che era Monsignor Eberardo Stuard d’Aubigny, scozzese, al servizio del Re di Francia ed uomo di provato valore e di carattere forte .
Gli narrarono ciò che era accaduto; cioè ,come da gran numero di spagnoli erano state assalite le
bande di ricognizione mentre si ritiravano; avrebbero voluto cadere colle armi alla mano, specialmente quando videro correre in loro la guarnigione ch’era rimasta in Seminara; ma , con tutto che ebbe luogo un gran combattimento, circondati da quasi tutto l’esercito spagnolo,stimarono inutile ogni ulteriore resistenza, specialmente perché i cadaveri ed i feriti erano malmenati e calpestati dai nemici e credettero quindi più utile conservarsi in vita per ritornare a miglior tempo
addosso al nemico, si arresero alle istanze degli spagnoli.
Ceder dovettero anche quegli ultimi che erano rimasti in castello, perché la città era insorta e data a discrezione del potente nemico perché sorpresa mentre era sfornita di regolare difesa.
Arse di sdegno a tali nuove l’Aubigny pensando che era stata una grande vigliaccheria,per parte degli spagnoli,assalire e massacrare una piccola schiera,; né atto di valore impossessarsi di Seminara guarnita solo da un manipolo di soldati, e tanto lui quanto i suoi ufficiali fremettero e giudicarono di voler tosto vendicare la morte dei loro prodi connazionali, per mostrare alla Spagna e alla Italia come si deve combattere con gente di onore.
E con tutto che l’Aubigny si trovasse infermo,preso dalla brama di vendetta, spedì subito messaggi con i suoi ordini a tutti i distaccamenti delle sue truppe che si trovavano in Calabria; ed a quegli degli svizzeri e della cavalleria in Basilicata,comandati da suo fratello Persis d’Allegris, che in pieno assetto di guerra, a grandi giornate lo venissero a raggiungere in Terranova.
All’esercito francese così raccolto si unirono le genti e i cavalli di questi luoghi,forniti dai partigiani degli Angioini; cosichè , in brevissimo tempo l’esercito fu completamente costituito al campo di
Terranova e partì alla volta di Seminara per cacciare da essa gli spagnoli.
Il campo fu posto a tre miglia da questa città sulla riva destra del fiume che oggi ha il nome Petrace, ma allora chiamavasi fiume di Seminara e Metauro, e proprio nella pianura di San Leo, tutta boschi e cespugli, presso l’attuale Ponte vecchio, e quando fu in pien’ordine,l’Aubigny, comandante supremo, spedì i trombetti a cavallo sotto le mura di Seminara per sfidare gli spagnoli.
A questo avviso,Re Ferdinando che era di spiriti bollenti ed audacissimo,come si può essere alla
età sua di 25 anni,si accese di tanto zelo che avrebbe voluto scendere lì per lì a precipizio sul nemico;e tosto convocò a consiglio i suoi ufficiali. Parlò egli per primo esponendo come un nemico
arrogante, orgoglioso,dato alle prepotenze,che aveva invaso ed oppresso il suo popolo,non domo
dalle sconfitte fino ad ieri ricevute,osava ancora non solo, senza alcun diritto rimanere nel Regno suo,ma sfidare l’esercito aragonese,quell’esercito che contava grandi vittorie,comandato dall’illustre Consalvo da Cordova, da un Re e da valorosissimi condottieri,onore e vanto d’Italia, che sarebbero capaci da soli sbaragliare quell’accozzaglia di gente venduta ai nemici di casa d’Aragona.
I quali nemici,di una metà più numerosi,sarebbero assolutamente sconfitti dal valoroso esercito
spagnolo che essi conducevano.
Per ciò, con vibrata parola incitava tutti ad andar lieti ad incontrare l’inimico e fargli vedere come
bene combatte chi lo fa per rivendicare il trono dei padri suoi e la libertà dei suoi popoli, contro l’aggressione più ingiusta e sfacciata. Continuò dicendo come egli già vedeva vittorioso il suo
esercito correre da paese a paese fino al trionfo,nella sua patria e capitale. E chiuse con dire che, se per tutti questo avrebbe dovuto essere nei fati che egli dovesse cadere,oh!, essere il suo dovere di Re ed il suo ideale,cadere col ferro in mano per l’onore della sua dinastia e per la libertà del suo popolo,….
Consalvo che per alta prudenza,per dottrina e gran pratica nella scienza delle armi,non che per provato valore, la sapeva più lunga del giovane Re, facile all’entusiasmo e corrivo a menar le mani per l’impulso dell’età più che per senno, lasciò che egli finisse il suo discorso,e, presa la parola
e levate alte lodi,sincere e ben meritate peraltro dal giovane principe,dichiarò pur nondimeno che
egli fosse dolente di non condividere il nobile sentimento del Re, anzitutto perché non si deve mai
accettare battaglia da un nemico che non si conosce di numero e che deve supporsi ben preparato
ad offrirla. Dimostrò come l’esercito francese fosse composto da gente provetta nelle armi e risoluta per le patite onte, non per questo tenere egli i francesi in opinione di valenti guerrieri,ma assai temibili al primo attacco;mentre gli spagnoli quantunque avessero buon contingente di truppe regolari, essere egli di parere che queste non fossero da tanto da sostenere nel momento presente la
prova suprema delle armi in battaglia campale. Per ciò chiedeva che si soprassedesse per breve
tempo,fingere intanto noncuranza e disprezzo per la sfida, ed attendere il momento propizio per
dare addosso al nemico, specialmente dopo che raffreddato dal primo ribollimento e dopo riconosciuto il numero ed il suo essere.
Lasciarlo quindi riposare nel campo in quella valle di aere pestifero ove,prometteva, fra pochi giorni
decimato dalla malaria.
Rimase colpito il Re da questo contrario avviso del Gran Capitano, tornò a parlare e si studia, da bel parlatore qual’era, e si sforza con ogni argomento a farlo recedere dall’espresso pensiero,
Consalvo a sua volta credè prudenza tener fermo, e sostenne che lo stato delle sue armi permetteva solo di tenersi pel momento sulle difese, e venir alle mani col nemico appena gli parrebbe venuto
il momento propizio,od almeno,impegnarsi in un’azione decisiva solo se si vedessero aggrediti.
Se non che il Re, ritornato alla parola comincia con mirabile forma eufemistica da perfetto cavaliere a manifestare la sua indignazione e nel calore del discorso si lasciò trascorrere a dire che i suoi congiunti,i Reali di Spagna, non per niente gli avevano spedito le truppe e che egli stesso non per
Questo era partito da Messina lasciando il padre infermo e quasi moribondo, ed avesse combattuto con tanto zelo e successo; non dover quindi attendere che il francese fosse ingrossato dei rinforzi che attendeva dovessero approdare a Gioia, né aspettare che fosse ridotto da ipotetiche infermità.per essere combattuto; che se altri non volessero seguire, essere pur egli padrone e comandante supremo dell’esercito e arbitro della guerra, ed avere il coraggio di marciare solo, contro il nemico, e condurre egli i suoi soldati sul campo di battaglia.
Le accese parole di Ferrandino finirono per infiammare di entusiasmo tutti gli ufficiali, e ,riferite
fuori nel popolo e nell’esercito che stava raccolto in campo trincerato,emisero tutti un generale grido di evviva al Re, evviva Fernandino ecc. e per ciò gli ufficiali che stavano a parlamento furono tutti di opinione che si venisse a giornata,qualunque potesse esserne l’esito. A ciò Consalvo non potè più opporre resistenza; e riassumendo tutto quanto si era discusso, terminò il parlamento con
un infiammata arringa, nella quale incitava tutti a combattere quei valorosi che erano.
Ferrandino,Consalvo ed altri capitani corsero tra le file dei soldati per comunicare la loro decisione,
per incoraggiarli a prepararsi al combattimento del domani.
Coi preparativi della guerra ebbe luogo pure un festino al campo con doppia razione di cibarie, e tutti si prepararono per andare il mattino seguente contro il nemico.
Era il giorno di Domenica 21 giugno 1495. Una splendida aurora sin dalle quattro del mattino preannunziava la più lunga e luminosa giornata dell’anno che entrava nel solstizio estivo.
Al campo spagnolo le trombe e i tamburi suonarono più per tempo la diana e l’ordine della partenza
per la battaglia, ed in breve tutti furono pronti in armi e bagaglio e partirono.
Attraversati per poco più di un’ora i colli e le vallette ricchi di pampini e di frutteti, coperti di rugiada e di frescura, e che degradando dalle alture di Seminara scendono al nebbioso fiume Petrace, sulla riva sinistra di esso, a vista dell’esercito nemico si sono fermati ordinandosi in questo modo.
Sul corso sinistro la fanteria, sul destro a mò di ala tutta la cavalleria; dietro tutti i calabresi, come corpo di riserva.
Tra la fanteria spagnola e gli italiani stava il Re, in mezzo a 500 ronconieri scelti per la guardia della sua persona che a cavallo emergeva fra tutti, perché vestito di un’armatura tutta dorata e sfolgorante,con un cimiero in testa ornato di grandi piume a vari colori.
Così disposti attendevano che i francesi guadassero il fiume per buttarsi loro addosso.
Questi comandati dal d’Allegris e dal d’Aubigny, si disposero in quadrato serrato, cogli svizzeri
ed i guasconi di fronte al nemico, dietro a questi la fanteria e, come retroguardia , a tergo di essa
gli italiani a piedi ed a cavallo. La cavalleria, composta di 800 cavalli e 400 uomini d’arme divisi tra i due fratelli condottieri metà per uno, fu posta ai fianchi dei pedoni.
Allo spuntar degli spagnoli i francesi si mossero in serrata falange,guadarono il fiume ed entrarono nel terreno nemico. A questo movimento gli spagnoli pensarono dapprima servirsi di uno stratagemma per tentare di disgregare il quadrato francese; ed una squadra di cavalleria, levando grida ed urli si spinse di carica sull’ala destra della cavalleria nemica, ma non l’aveva puranco raggiunta che voltò indietro per essere inseguita.
Con questa manovra che era una certa maniera spagnola di combattere credevasi che avrebbero potuto far rompere l’ordinanza del formidabile quadrato, col distaccare e venire innanzi il fronte e il fianco e combatterla al largo isolatamente, mentre poi il resto dell’esercito che sarebbe stato costretto a soccorrere la truppa distaccata, sarebbe assalito e oppresso dalla fanteria. Dalla cavalleria e dal corpo degli italiani.
Invece in questo primo momento, non indovinato, sortì l’effetto contrario a quello che si aspettava
e determinò dal bel primo la rotta degli spagnoli; perché la cavalleria che stava ai due lati dei fanti
carica da ambo le parti immediatamente i fuggenti, prima che si movessero gli svizzeri che stavano alle prime file. La fanteria spagnola, non comprendendo quell’indietreggiare di corsa della sua cavalleria,lo crede fuga; perché la vede inseguita e circondata dalla cavalleria francese si disamina e, invece di correre al combattimento quando la cavalleria tornava all’assalto, si sbanda generando la peggior confusione.
Il Re , vide il pericolo; e per impedire la fuga della fanteria lascia i suoi e si spinge temerariamente innanzi. Succede in quel momento un movimento generale dei due eserciti, l’uno contro dell’altro :
il Re si abbandona al combattimento come un leone,atterrando quanti hanno la sventura di capitare da sinistra e da destra sotto i colpi del suo squadrone.
Il movimento, la mischia, la confusione, la lotta divengono terribili,furibonde: non si bada che a
colpire e difendersi. Già i 500 Ronconieri che seguivano il Re sono quasi tutti caduti intorno a lui, che più volte aveva tirato addosso all’Aubigny, che aveva ben saputo guardarsi quei terribili colpi.
Dei valorosi ronconieri non restano che pochi al Re, combattono strenuamente con lui che, conosciuto dall’armatura, è fatto segno dei colpi dei francesi, gli ufficiali dei quali si sforzano a raggiungerlo e farlo prigioniero. Si difende egli disperatamente e così è ancora difeso dai suoi ufficiali, che ,finalmente, vista le giornata perduta, gli impongono di fuggire, ma Ferrandino non vuole lasciare la battaglia ed abbandonare i suoi valorosi. Se non che in un istante, il suo cavallo,
ferito per la terza volta,mentre si spingeva ad un movimento retrogrado per salvarsi con la fuga, non può più resistere,quando un terribile colpo di azza sventra quasi in tutto il valoroso destriero.
Cade urlando come il bucefalo il generoso quadrupede e trascina appresso il Re suo cavaliere, impigliato fra arcioni e le staffe. In distanza se ne accorgono Persis e d’Aubigny e corrono per prenderlo vivo, ma i valorosi soldati italiani che erano stati messi alla coda dell’esercito, si battano da eroi per salvargli la ritirata, e i fratelli Altavilla compiscono per ciò atti di esimio coraggio.
Di essi, Giovanni, vide cadere il Re, e , sbalzato a terra lo svincola, lo rimette in piede, lo fa balzare sul suo cavallo ed ordina che gli italiani rimasti illesi ed il Re fuggano per metterlo in salvo.
Ferrandino, gonfio di rabbia e di disperazione cerca di resistere, grida di voler morire con i suoi soldati e si spinge di nuovo alla carica; ma è strappato, messo fuori dalla mischia dagli italiani e
dallo stesso Consalvo che era giunto a tempo per salvarlo, mentre dava l’ordine per la ritirata.
La giornata era perduta, quantunque valorosamente, per gli Spagnoli,caduti per un equivoco e pel
doppio numero di nemici che dovettero combattere.
Il sole del pomeriggio dardeggiava sulle arene e nella valle del Petrace, e Ferrandino obbedendo al consiglio di salvarsi, pallido, fremente ,coperto di polvere e di sudore, ansante, oppilato e seguito dai suoi fidi italiani tutti a cavallo, prende la via di Palmi.
Egli si era comportato da Re,si potrebbe tacciare di avventatezza e di imprudenza, per non aver fatto tesoro del consiglio di Consalvo, ma gli spiriti bollenti dell’età sua, l’amor proprio, e la propria dignità lo scusano di fronte alla Storia. Nella battaglia si portò da eroe ed il suo valore ha poco riscontro nella storia stessa.
Raccolti come potette i superstiti che non arrivavano a metà dell’esercito condotto a quel macello,
Consalvo fece alzare bandiera bianca col segnale per poter raccogliere i feriti e dar loro sepoltura ai morti, e .lasciati 800 soldati per questo pietoso ufficio ritornò con gli altri a Seminara. Ivi raccolte
i bagagli e tutte le cose preziose, rincuora i seminaresi , li ringrazia delle accoglienze e raccomandando loro la massima prudenza e rispetto verso i francesi e carità pei feriti che sarebbero portati fra breve, diede promessa che sarebbe non guari dopo tornato alla rivincita
con un buon esercito; si spinse coi suoi su pei Piani della Corona sapendo sgombra la via di nemici e corse a rinchiudersi in Reggio.
Le conseguenze di questa giornata , che come dicemmo restò famosa nelle storie, non furono quali
potevano essere, fatali per la nostra regione.
Il d’Aubigny si comportò da uomo oltre ogni dire moderato, perché non perseguitare,né inseguire e massacrare in tutto i superstiti nemici, né andare per quel giorno oltre il campo di battaglia, fu un atto di grande prudenza.
I suoi gridarono che egli non sapeva usare della vittoria col fare prigionieri tanti illustri capitani italiani e spagnoli, né riprendere e vendicarsi di Seminara. Se non che il d’Aubigny colla giornata che aveva combattuto più che un’azione materiale e interessata, aveva avuto di mira una tutta morale, per risollevare le armi francesi nella pubblica opinione.
Ottenuto questo, in modo strepitoso, con l’avere vinto un Re in persona, il più illustre capitano che vantasse la nazione spagnola e tanti italiani eminenti per casato e valore, non voleva certo guastare il suo trionfo con atti di intemperanza e di vendetta. D’altronde, egli sapeva che la conquista del Regno così rapidamente fatta da Carlo VIII era mal sicura e che non poteva egli avere speranza di aiuti dalla Francia e perciò da uomo prudente ben si avvisò di mostrarsi umano.
Re Ferrandino intanto si era diretto a Palmi ove fu cordialmente accolto, ristorato da quei terrazzani e provvisto d’imbarco per Bagnara, come a luogo rinomato allora per commercio.
Quivi ebbe anche cordiali accoglienze e passaggio pel Porto d’Ercole, oggi Tropea,per raggiungere colà la sua squadra e ricondurla al sicuro nel porto di Messina.
APPENDICE
Perché i nostri lettori posano formarsi un esatto concetto delle cause e delle conseguenze politiche
Di questa seconda battaglia combattutasi nella nostra Piana tra francesi e spagnoli,crediamo necessaria una succinta esposizione dei molteplici e vari avvenimenti che con rapide, incessanti vicende si successero nel nostro estremo meridionale, dal cadere del XV al sorgere del XVI secolo.
Tristi tempi in vero quelli, nei quali si vedevano ancora italiani di ogni grado combattere contro
I loro fratelli italiani accanto a mercenarie soldatesche straniere, sostenitori di Re ambiziosi e tiranni, venuti di oltralpe alla conquista di queste terre infelici, che, dopo la caduta del grandioso impero di ROMA, quando il civis romanus sum imponeva rispetto allo universo, erano diventate per molti secoli come res nullius.
Sarà la nostra una breve digressione, della quale chiediamo venia ai nostri lettori cortesi e gentili, perché speriamo, sarà loro per riuscire lettura piacevole e grata.
La battaglia di Seminara che abbiamo descritta non apportò vero utile ai vincitori, i quali ,per altro,
ben sapendo che avevano troppo poco da guadagnare in fine per se stessi, la avevano voluta, più che altro,come un motivo decorativo della loro spavalderia.
Fatale per i miseri caduti, che nel fiore degli anni perdettero la vita trascinati a quel macello non certo per una causa interamente nobile e lodevole,non fece altro che arrestare per un momento, quasi al suo inizio la marcia che Re Ferdinando II ,e Consalvo da Cordova avevano intrapresa alla conquista del Regno di Napoli per la parte del Tirreno.
L’Aubigny e gli altri ufficiali col resto dell’esercito vittorioso erano ritornati a Terranova, e di là, a Gerace, ove, quegli rimasto per lunga infermità, si vide poi abbandonato, perché l’esercito era andato ad unirsi al Duca di Montpensier, ed indi a non molto dovette con gran rammarico e per favore degli spagnoli tornarsene in Francia.
Consalvo tornò a Reggio, e approfittando delle condizioni di salute dell’Aubigny, in breve per la via dello Ionio occupò Crotone, Squillace, Nicastro, Cosenza, Mileto,Terranova e Seminara di bel
Nuovo. Intanto i francesi che si erano in breve resi odiosissimi in tutta Italia per il loro sfacciato,imprudente e prepotente libertinaggio erano esecrati da tutti e da ognuno era desiderato il legittimo spodestato monarca.
Il Re Ferrandino richiamato per ciò dal popolo napoletano rientrava in Napoli in mezzo al delirio clamorosissimo della gioia generale, mentre già Carlo VIII, venuto in conoscenza della lega dei
principi italiani, stretta contro di lui, fuggiva quasi a precipizio ed incontrava sul fiume Taro le schiere degli alleati, colle quali costretto a battersi nella strepitosa giornata del 6 luglio 1495, con
suo grande terrore, fu un filo di capello che non cadesse in mano dei nemici.
Era stato per Carlo VIII, quella del Regno di Napoli un’impresa disgraziatissima,alla quale si era lasciato adescare dalle lusinghe sia dell’infamia di Lodovico il Moro, sia dalla propria ambizione.
E diciamo disgraziatissima quell’impresa perché gia quando era in Asti era stato attaccato dal vaiolo, in Firenze aveva avuto quell’accoglienza per la quale restò famoso Pier Capponi,il Pontefice lo esecrava,mentre i napoletani ed il resto d’Italia lo maledicevano;e dopo la sconfitta di Fornovo gli rimase tale sinistra impressione di quella venuta in Italia che, quando si vide salvo per miracolo in Francia, giurò che non avrebbe più portate le armi contro il Re di Napoli.
Intanto le popolazioni erano tutte insorte contro le guarnigioni francesi rimaste in diversi punti del Regno, le quali guarnigioni, abbandonate dal loro Re, furono poi costrette di partirsi dal Regno,
immiserite, decimate,allo estremo per malattie,per fame e pel freddo, rimanendo molti ancora sfiniti nel tragitto per mare.
Il reame di Napoli ritornato così sotto lo scettro di Ferrantino II di Aragona, pareva che risorgesse a novella speranza di bene duratura perché il giovane Re si era dimostrato principe oltre che valorosissimo, dotato di alta mente e mobilissimo cuore .Quando, inaspettatamente, dopo solo diciotto mesi di regno, mentre ancora la reggia risuonava delle feste delle sue nozze con la principessa Giovanna di Aragona bella e virtuosa giovinetta di 17 anni sua congiunta, sorpreso da
febbre perniciosa, in pochi giorni il povero Ferrandino cessò di vivere dopo appena 38 giorni di matrimonio, il 5 ottobre 1496 alla purtroppo tenera età di 39 anni.
La sua tomba fu chiusa tra le lagrime di tutto il regno.
Il Giovio scive che: “nessun re fu mai sepolto con maggiori o veramente con più vere lagrime d’ogni qualità d’uomini” e Giuliano Passaro, altro storico di quei tempi non ha parole che gli bastano a deplorarne la perdita, soggiungendo che: “per Napoli, grandi e piccoli davano la testa per le mura per lo grande dolore”, giacchè come ben dice il Volpicella, Ferrandino aveva riacquistato
il regno paterno col sorriso sul volto e con la spada nel pugno,e per ciò era idolatrato dai suoi popoli.
Il trono di Napoli doveva cadere alla vedova giovinetta, così desiderava il popolo,oppure alla sorella del Re, la virtuosa quanto sventuratissima Isabella di Aragona, già duchessa di Milano.
Ma i baroni che avevano perduto la fiducia nel governo muliebre, vollero mettere sul trono stesso Federico d’Aragona, Conte d’Altamura e di Taranto, zio del defunto, Federico però, se era dotato di cuore nobile e leale e le popolazioni molto s‘impromettevano della sua bontà tuttavia la sua mediocre intelligenza lo rendeva debole, irresoluto, amante più della pace che della guerra.
Venne intanto a morte Carlo VIII e successe sul trono di Francia Luigi XII, che tanto danno doveva essere all’Italia ed ai suoi soldati qui condotti per conquistare la Lombardia , contro Lodovico il
Moro ed il Reame contro Federico di Aragona. A questo fine egli si uni in segreta lega col re di Spagna Ferdinando II il Cattolico, congiunto di Federico, che aveva visto di mal occhio la elezione di lui a re di Napoli, su cui egli aveva pretese di successione.
I due potenti firmarono tra loro di conquistare e spartirsi il Regno di Napoli in questo modo: che
Quello di Francia dovesse possedere Napoli con tutta terra di Lavoro e lo Abruzzo, e quello di
Spagna la Calabria, la Basilicata, la Puglia e la Terra d’Otranto per essere alla sua Sicilia vicine.
L’infelice ed ingenuo Federico, accortosi, ma tardi,dello atroce inganno e della sua insufficienza,
che mentre sperava di guadagnare il rispetto di ambedue gli ambiziosi era tradito dall’uno e dall’altro. Il 26 giugno del 1501 papa Alessandro VI depone re Federico,nell’agosto del 1501 i
francesi entrano in Napoli, e Federico preferì darsi in mano al saputo nemico anziché al creduto amico, e da quello condotto in Francia, dopo quattro anni finì di vivere quasi di crepacuore.
Così ebbe termine il primo Regno di Napoli indipendente e andò ad unirsi colla Sicilia nella soggezione straniera diventando un semplice possedimento, una provincia della lontana Spagna.
I francesi dunque,guidati dal Duca di Nemours e dal noto generale d’Aubigny, penetrarono nel Reame per le parti di Terra di Lavoro, mentre gli spagnoli vi entravano per le Calabrie condotti da Consalvo da Cordova. Ma al compimento dei fatti nel dividersi la preda si ruppe guerra tra
francesi e spagnoli. Dapprima si combattè con varia fortuna, più favorevole ai francesi, in piccoli scontri, ma, quando gli italiani capitanati da Fabrizio Colonna si unirono con gli spagnoli, fu abbattuta la tracotanza dei francesi nella famosa disfida di Barletta del 13 febbraio 1503, e poco dopo nella memoranda giornata di Venerdì Santo del 10 aprile 1503, combattuta non poco lontano
da Seminara ,battaglia del Pontevecchio, ed in ultimo in quelle dalla Cerignola e del Garignano, i francesi furono interamente sconfitti.
Ora quest’ultima battaglia di Seminara, secondo gli storici contemporanei di maggior grido. avvenne nelle circostanze che esporremo.
Qui dovremmo parlare dei gravissimi fatti di armi avvenuti nella nostra Piana fra S. Giorgio, Polistena, Cittanova e Terranova, ma , siccome di ciò ci intratterremo altra volta, diremo adesso della accennata battaglia di Seminara,ove i francesi furono rotti e presi, come il Guicciardini mestamente considerava, in quei luoghi medesimi dove pochi anni innanzi avevano con tanta gloria superato e rotto re Ferdinando e Consalvo. Tanto è poco costante la prosperità della fortuna!
Le condizioni dell’esercito spagnolo sparso per l’Italia meridionale erano disastrose al cadere del
1502,scarsi di numero e mancanti di approvvigionamento. Nella nostra Calabria un buon numero
erano stanziati a Reggio , a Gerace, a Seminara ed a Terranova. I francesi stavano a Bovalino, allora detto Motta Bufalina, alla Angitola e ad altri luoghi,con ordine del Re di non esporsi a battaglia campale, sia perché erano in corso trattative di pace, sia perché si aspettava dalla Francia gran rinforzo di armati e di munizioni. Il loro morale si manteneva elevato per le frequenti vittorie, nonostante le batoste toccate a Barletta. Dall’una parte e dall’altra valorosi e nobili ufficiali comandavano gli esrciti, ed è bello osservare nella presente fazione come un esercito cercasse di sopraffare l’altro coll’astuzia e colla sorpresa. Era come un gioco terribile comandato dalla morte.
Mentre i due eserciti si spiavano i movimenti, un buon rinforzo giunge per via della Sicilia agli spagnoli sotto il comando del generale Alfonso Corvaiale e i fratelli de Andrada.
Questi senza por tempo in mezzo approdati a Reggio avvisano del loro arrivo Ugo de Cordova in Gerace e di conserva si dirigono per Terranova ove presto si uniscono.
A questo movimento, il generale d’Aubigny uscì anco lui da Bovalino e varcati i monti si diresse a Polistena colla fanteria ed a Rosarno colla cavalleria e da qui si mosse per Terranova e Seminara per provocare a giornata gli spagnoli. Costoro lo prevennero e corsero ad occupare la collina di San Giovanni in Lauro, castello oggi non più esistente ma che lasciò il nome alla contrada, non molto lontano da Seminara. Questi luoghi ridestavano nell’Aubigny e nei suoi commilitoni i bei ricordi delle precedenti vittorie, massime di quelle strepitosissime del 1495 e perciò con l’animo pieno della fiducia in un’altra e finale battaglia che lo avrebbe fatto padrone della Calabria, rincuorò i
suoi alla pugna e mandò gli araldi a sfidare, com’ era allora di uso, con le peggiori insolenze ed invettive gl’inimici a scendere al combattimento. Gli spagnoli accettarono, e, ordinate le loro truppe
presero posizione in modo da cogliere l’Aubigny di fonte e dal lato destro.
Questi se ne accorse e, lasciata prestamente la collina di S Giovanni, guadò il fiume e si diresse a Gioia per avere alle spalle un luogo di appoggio e di rifugio in caso di avversa fortuna.
Gli spagnoli che cercavano allora coglierlo alle spalle lo seguitavano e guadarono anch’essi il fiume. In quel tempo, come sempre suol avvenire nella primavera , il Petrace era gonfio di acque
sicchè i soldati della cavalleria dovettero passare in groppa quelli della fanteria.
Dopo quest’operazione i francesi si accamparono in Gioia ove si trincerarono e guarnirono la riva del fiume con quattro pezzi di artiglieria, la quale allora in uno stato bastantamente primitivo, perché all’inizio del suo uso, faceva la prima comparsa in Calabria.
Gli spagnoli alla loro volta posero il campo nella pianura di S.Leo Così stettero i due eserciti nemici per quella sera,potenti entrambi di circa ottomila uomini ciascuno, e pensierosi di dare
tosto battaglia.
Era sorto intanto il giorno di Venerdì Santo di quell’anno 1503, che alcuni storici fanno cadere il
14, altri il 19 di aprile, ma che stando al Guicciardini ed al suo annotatore, tale giorno era il 10 come è pure nostra opinione. Una splendida giornata primaverile come quelle che per lo più sogliono venire nella settimana maggiore quando cade in aprile, ricca di luce, di profumi campestri e di speranza, sorrideva in quel tempo.
I due eserciti ciascuno divisi in tre forti schiere comandate da valorosissimi e provati militari stavano nella pianura che si distende dal Ponte vecchio in giù, intenti entrambi a mettere in opera le insidie per dare addosso al nemico all’inaspettata.
A quest’oggetto, gli spagnoli per primi fanno muovere il generale Emanuele Bonavides col corpo all’avanguardia da lui comandata, sotto aspetto di parlamentare coll’Aubigny va a trovarlo e s’intrattengono infatti a discorrere, stando ognuno sulla riva.
Intanto il retroguardo spagnolo che costituiva la terza squadra, prendendo il largo più in sopra, cerca, . con un movimento di evoluzione da destra a sinistra colpire l’Aubigny alle spalle,mentre il grosso dell’esercito della seconda squadra movendosi in mezzo a tempo opportuno lo avrebbe colpito di fronte e scoprendosi poi il Bonavides lo avrebbe battuto dall’altro fianco.
Circondare quindi da tre parti i francesi era il pensiero degli spagnoli. Se non chè l’astuto ed accorto generale francese, intravedendo il pericolo abbandona il suo interlocutore e rapidamente fa muovere l’esercito suo prima che l’antiguardo ed il resto degli spagnoli fossero tutti passati nella sua riva, ma non fu più in tempo, perché l’esercito spagnolo era già transitato: L’Aubigny allora si serra in falange in pieno ordine di battaglia e da addosso agli spagnoli. Comincia una zuffa poderosa, micidiale. Nella prima ordinanza dell’esercito francese combatte l’Aubigny come un leone contro il corpo sinistro degli spagnoli comandato da Emanuele Bonavides. Questi piega per un momento al formidabile impeto dei francesi e degli scozzesi dell’Aubigny, ma è soccorso in tempo da don Ugo,dal fratello Antonio Bonavides e dell’Avensado. Fra tutti si accende una mischia terribile, nella quale essendosi disordinata la schiera dell’Aubigny, stava egli per cadere nelle mani dei
nemici se non fosse stato soccorso dal valoroso Corvaiale che colpendo alle spalle i combattenti
li mette per un istante in scompiglio e in un movimento di dietro fronte, durante il quale l’Aubigny
ed i superstiti della sua squadra si danno alla fuga.
In questo mentre la cavalleria di Andrada fa strage della seconda squadra francese comandata da Alfonso Sanseverino soccorsa dalla terza, condotta da Onorato fratello di lui. Lottano, feriscono,scannano, atterrano in spaventevole modo l’un contro l’altro i due eserciti, calpestando fanti e cavalli i morti e i feriti e pare non vogliano lasciare il campo se non quando un solo non sia più in vita. Se non che finalmente, il valore e il numero delle schiere spagnole gridano vittoria e resa ai francesi superstiti, i quali non potendo più sostenere l’impeto dei nemici si danno a precipitosa fuga e corrono a porsi in salvo a Gioia, lasciando sul campo circa sei mila uomini tra morti e feriti e la vittoria strepitosa e definitiva agli spagnoli.
Questa battaglia, incredibile a credersi, si svolse in poco più di mezz’ora, tanto era in quei tempi l’agilità,la sveltezza,la rapidità dei movimenti, la rabbia e la ferocia degli accaniti rivali.
Essa avvenne nel pomeriggio del detto giorno,nella pianura che si distende dal Ponte vecchio di Palmi in giù.
Postosi i superstiti vincitori e disposto il trasporto dei feriti in Seminara, ed il sotterramento dei loro morti, una schiera dei più valorosi e disponibili mena in trofeo i prigionieri francesi nella stessa città, ed una squadra con prestezza insegue d’Aubigny a Gioia, per avere prigione anco lui.
Ma egli subodorando il vento infido abbandona Gioia e col favor della notte lunare arriva al mattino di pasqua a chiudersi nel castello dell’Angitola. Da quivi poscia per capitolazione, sconfortato dalla generale sconfitta dei suoi connazionali ed il fallimento dell’impresa del novello suo Re, senza alcuna speranza di aiuto, ottiene dal vincitore di ritornare in Francia, con gli altri valorosi campioni
fatti prigionieri con le armi in mano e poi messi in libertà dalla generosità di Consalvo, il quale aveva ordinato per tutto, generale armoniche feste e trionfo,massime perché Ferdinando il Cattolico, suo re, lo aveva insignito della carica di Viceré del Regno di Napoli, ed investito della contea di Gerace, del Ducato di Terranova,di Mileto, del Marchesato di Gioia, di Polistena e di S.Giorgio come guiderdone del suo valore e delle sue fatiche sostenute nelle due imprese di Napoli.
Questa fu la seconda battaglia di Seminara, così famosa nelle storie, così feconda di miserie per le nostre regioni apportate dalla disastrosa dominazione viciregnale, due volte secolare, cui la sconfitta dei francesi lasciò luogo per sempre.
Un illustre e storiografo, come buon poeta, Domenico Spanò Bolani su questa battaglia, in rapporto colle nostre popolazioni, scrisse un bel sonetto che ci è piaciuto riportare come chiusa e conclusione
del nostro lavoro:
Sono a fronte i nemici; il cozzo e ‘l lampo
Veggio de’ brandi anch’io.Gallo ed Ibero
Del nostro suol contrastansi l’impero,
E Seminara alla tenzone è campo
Scontrasi ai fianchi, al centro; urtasi e vampo
E’ l’ira all’ira ed all’eccidio. Al fero
Impeto trema il cor d’ogni guerrero
Cui sol la morte, o la vittoria è scampo
S’apron le schiere; all’ordine succede
Scompiglio e fuga!…tutto sangue è il piano!
Vince l’Ibero; il Franco è rotto, e cede.
Che fa il Calabro intanto? Ei da lontano
Chi si contende la sua patria vede,
e piega il collo al vincitor Ispano.
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