auto antiche e moderne

lunedì 31 dicembre 2007

ANNO NUOVO SPERANZE NUOVE


Oggi 31 dicembre, ultimo giorno dell’anno.

Lungo ed inutile sarebbe ripercorrere o ricordare i diversi fatti che si sono susseguiti nel 2007. Ognuno di noi in questo anno ha vissuto giorni lieti e giorni meno lieti,ma tutti nostri che hanno cadenzato la nostra esistenza. Si usa brindare all’anno nuovo che è alle porte. Con gli spari che rimbombano da città in città si vuol oltre che festeggiare la nascita del Nuovo Anno,quasi infierire su quello che è già morto,come se tutte le negatività fossero state appannaggio di quello passato.

L’infante che sta per giungere, nostra speme, ci ricolmerà di gioie inaspettate.

Viviamo sempre di speranza,contiamo sempre sul futuro, perché questo è a noi sconosciuto. Quando poi, con il trascorrere dei giorni anche questo si apre alle gioie ed ai dolori,non teniamo in giusto conto le ore liete, ma tristemente annotiamo i giorni nefasti,per poter poi, l’ultimo giorno ,gioire della sua fine e brindare a un prossimo futuro anno (nella speranza) ancora migliore.
E intanto gli anni ……. passano!

Lascio ai lettori i commenti su queste mie riflessioni.

domenica 16 dicembre 2007

BUON NATALE 2007


AUGURO ad amici conoscenti e a quanti vedranno questo blog un Felice Natale.

domenica 9 dicembre 2007

Barlaam e gli Esicasti


Barlaam e gli Esicasti.
Chi erano gli esicasti ?
Erano i seguaci di una dottrina mistica che provocò forti contrasti nell'Impero bizantino intorno al XIV sec.

Gli esicasti furono, nei primi tempi del monachesimo orientale, monaci contemplativi, praticanti l'ascesi mediante un'incessante invocazione del nome di Gesù. A poco a poco l'esicasmo divenne un metodo di contemplazione, basato su elementi psichici e fisiologici, che trovò la sua perfezione presso i monaci del Monte Athos: i suoi seguaci intendevano trovare nella totale immobilità fisica e intellettuale, guardandosi
fissamente l'ombelico, l'unione diretta con Dio, manifestata da una luce simile a quella che circondò Cristo sul monte Tabor. Questa dottrina, difesa da Gregorio Palamas, fu violentemente combattuta dal monaco di origine calabra Barlaam: la disputa, con implicazioni politiche, divise l'Impero per dieci anni (1341-1351), contribuendo a indebolirlo di fronte ai Turchi.
L'immagine sopra esposta ritrae fra Barlaam. Stampa che servi poi al pittore A. Buggè per la ricostruzione pittorica del volto dell'insigna frate.(vedi il post di questo blog.Personaggi illustri di Seminara)

venerdì 7 dicembre 2007

Polonia Zalipie.



Tarnov
La cosa che vale la pena di visitare a Tarnow è la città vecchia, di impianto medievale, con la bella Piazza del mercato, i caratteristici portici ed il palazzo del Municipio.Non lontano dal vecchio centro si trova Plac Bohaterów Getta (piazza degli Eroi del ghetto) e subito accanto a essa ci sono i bagni rituali della comunità ebraica. E' da questo triste luogo che, il 14 giugno 1940, iniziò la deportazione verso Auschwitz.Da Tarnow consigliamo assolutamente di dirigersi, attraverso sperdute strade di campagna, al minuscolo paesino di Zalipie, per noi una delle più belle "scoperte" di questo viaggio in Polonia, tanto più che se ne fa scarsa o nessuna menzione nelle guide.Zalipie, il paese delle artiste, dista una trentina di chilometri da Tarnow, ma è come catapultarsi in un altro mondo, in altri ritmi.La caratteristica che ha reso noto Zalipie è che tutte le case sono decorate da splendidi e coloratissimi motivi floreali; la tradizione vuole che questa moda sia iniziata per camuffare le macchie di muffa che deturpavano la facciata delle bianche case di Zalipie.Quest'arte, che via via si è estesa alla decorazione di oggetti in legno, alla creazione di ricami, bambole ecc. tutte caratterizzate da motivi floreali, è praticata esclusivamente dalle donne.Esiste un delizioso museo etnografico ospitato nella casa della defunta Felicja Curylowa, lei stessa una brava pittrice

Sulla pittura nichilista

Il nulla porta un artista come l’americano Ad Reinhardt alle tele nere, quelle che ha chiamato i 'dipinti definitivi', un musicista come John Cage a 4´33', il pianista seduto di fronte al suo pianoforte, che non sfiora nemmeno, per lunghi quattro minuti e trentatré secondi, o un regista come Jean-Luc Godard allo schermo bianco dei suoi film. Se il nulla confonde l´artista, turba ancor più lo scienziato, che lo ha sempre guardato con gran sospetto.
Lo si vede innanzitutto nella storia dello zero, dove ci sono ipotesi suggestive e forse vere. Si sa da molto tempo che lo zero è stato introdotto dai matematici indiani verso il 500 d.C. accanto alle altre nove cifre che usavano già da vari secoli. Duecento anni dopo lo zero passò agli arabi e da questi in Italia e in Europa per merito di Leonardo Fibonacci che avendo seguito il padre, funzionario delle dogane di Pisa in Africa del nord, si rese conto che il sistema di numerazione indo-arabo era superiore a quello romano allora ancora in uso in Occidente. Gli studi successivi hanno poi accertato che quasi contemporaneamente e indipendentemente dagli indiani anche i Maya avevano scoperto lo zero e che molto prima di loro (oltre 2000 anni prima sia degli indiani che dei Maya) i babilonesi avevano usato per indicarlo due cunei inclinati. I primi ad usare lo zero, insomma, sarebbero stati i babilonesi, anche se questo nulla toglie al primato assoluto degli indiani perché solo questi ultimi concepirono lo zero come un vero e proprio numero, sinonimo di “quantità nulla” e lo posero accanto alle altre nove cifre componendo così un insieme completo di simboli matematici che consentiva di generare qualsiasi numero dato che quella strana cifra assumeva per loro la funzione fondamentale di operatore aritmetico. Solo gli indiani, insomma, furono capaci di operare la perfetta fusione tra sistema di numerazione posizionale e concetto di zero dalla quale è nato il linguaggio della matematica.
La filosofia greca, fin dalle sue origini, ha respinto il concetto del nulla. Talete è stato fra i primi a sostenere che 'qualcosa' non poteva derivare dal nulla o scomparire nel nulla: 'Dal nulla non sortirà nulla', dice il Re Lear alla figlia Cordelia. L´horror vacui della fisica aristotelica affermava che non potevano esistere spazi vuoti: la natura aborre il vuot0.......................................................Questa la risposta di un'altro lettore al forum sopra indicato

In un mondo in cui la Storia del prossimo futuro è già stata tracciata in anticipo secondo un canovaccio che non ammette più nessuna variante,come fa un pittore a dipingere in termini di 'bellezza', subire un fascino estetico verso questo mondo agghiacciato e violento? Come può mettere tanta cura nel dipingere un volto, un gesto?
Lo potrà solo se ha la coscienza che tutto nella sua continua opera sarà più riuscito quanto maggiore sarà l’estraneità verso ciò che egli dipinge.
Una pittura aniconica quindi ,priva di significati reali,ma piena di luce e di colori, non ricerca del significato, cosa che molti spasmodicamente cercano, ma contemplazione dell’opera nel suo divenire, nel suo essere e nel suo proporsi……………………………………………………..



Una critica e la risposta del pittore

Alberto amava definirsi " il pittore del Nulla".Infatti la sua era una pittura aniconica, ma non priva di elementi di ricerca quali la luce ed il colore . Il suo " Nichilismo pittorico" fece si che qualche critico ebbe a scrivergli così :


Il nulla porta un artista come l’americano Ad Reinhardt alle tele nere, quelle che ha chiamato i 'dipinti definitivi', un musicista come John Cage a 4´33', il pianista seduto di fronte al suo pianoforte, che non sfiora nemmeno, per lunghi quattro minuti e trentatré secondi, o un regista come Jean-Luc Godard allo schermo bianco dei suoi film. Se il nulla confonde l´artista, turba ancor più lo scienziato, che lo ha sempre guardato con gran sospetto.
Lo si vede innanzitutto nella storia dello zero, dove ci sono ipotesi suggestive e forse vere. Si sa da molto tempo che lo zero è stato introdotto dai matematici indiani verso il 500 d.C. accanto alle altre nove cifre che usavano già da vari secoli. Duecento anni dopo lo zero passò agli arabi e da questi in Italia e in Europa per merito di Leonardo Fibonacci che avendo seguito il padre, funzionario delle dogane di Pisa in Africa del nord, si rese conto che il sistema di numerazione indo-arabo era superiore a quello romano allora ancora in uso in Occidente. Gli studi successivi hanno poi accertato che quasi contemporaneamente e indipendentemente dagli indiani anche i Maya avevano scoperto lo zero e che molto prima di loro (oltre 2000 anni prima sia degli indiani che dei Maya) i babilonesi avevano usato per indicarlo due cunei inclinati. I primi ad usare lo zero, insomma, sarebbero stati i babilonesi, anche se questo nulla toglie al primato assoluto degli indiani perché solo questi ultimi concepirono lo zero come un vero e proprio numero, sinonimo di “quantità nulla” e lo posero accanto alle altre nove cifre componendo così un insieme completo di simboli matematici che consentiva di generare qualsiasi numero dato che quella strana cifra assumeva per loro la funzione fondamentale di operatore aritmetico. Solo gli indiani, insomma, furono capaci di operare la perfetta fusione tra sistema di numerazione posizionale e concetto di zero dalla quale è nato il linguaggio della matematica.
La filosofia greca, fin dalle sue origini, ha respinto il concetto del nulla. Talete è stato fra i primi a sostenere che 'qualcosa' non poteva derivare dal nulla o scomparire nel nulla: 'Dal nulla non sortirà nulla', dice il Re Lear alla figlia Cordelia. L´horror vacui della fisica aristotelica affermava che non potevano esistere spazi vuoti: la natura aborre il vuoto.
E fino all’inizio del ventesimo secolo, sopravvisse la credenza nell’esistenza di un 'etere' misterioso, che serviva soltanto a negare l´esistenza di uno spazio vuoto. Non è stato semplice per l´uomo accettare l´idea del vuoto e del concetto matematico che lo rappresenta, zero. Grandi civiltà, come quella greca e quella romana, non avevano il numero zero. I numeri servivano soltanto per contare oggetti concreti, non la loro assenza e quindi lo zero non serviva a nulla. .........................................................


cosi Alberto rispose :

Gentilissimo Critico, la ringrazio per l'attenzione dedicata alla mia povera produzione artistica apparsa su Internet sul sito di mio fratello. La notizia del suo divertimento mi ha a mia volta,molto divertito. Non è mia l'invenzione della "pittura del Nulla": la scoperta di un'arte puramente visiva in cui la forma si dissocia dal contenuto e ne fa pure a meno.
Come ben saprà,è un idea resa oralmente esplicita (verbalmente dichiarata e rivendicata) ormai da circa un secolo.
Cito semplicemente il lemma "formalismo",in Enciclopedia Zanichelli a cura di Edigeo (Editoriale La Repubblica,1995).
Con la mia personale ricerca nel corso dell'ultimo mezzo secolo della mia attività,( isolata,modesta,schiva e deliberatamente lontana da ogni tentazione mercantile) sono spesso approdato ad esiti antinaturalistici,aniconici,antisimbolisti,svincolati da ogni ambiguo e fuorviante rimando alle materie che formano più propriamente l'oggetto della comunicazione verbale. (poesia,psicologia,sociologia,religione,eros,filosofia.ecc ecc.). Non chiedo consensi,ma,semmai,empatia estetica.
Gradisca i miei saluti. Alberto Buggè





L’artista del nulla



Quel pittore di New York, dal nome italiano, ispirato da Firenze e che in California ha "completato" la sua opera
Quella mattina a Roma c’era un sole caldissimo, spuntato all’improvviso dopo mesi e mesi di pioggia e freddo. I romani avevano atteso a lungo la buona stagione che quell’anno sembrava davvero non arrivare mai. Gli esperti avevano sentenziato che era da 150 anni che non c’era stato un tempo così cattivo in Italia, con neve a bassa quota anche in pieno maggio, cosa davvero incredibile.
Ma finalmente le cose sembravano essersi raddrizzate. Nelle piazze erano di nuovo spuntati i tavolini all’esterno di bar e ristoranti e nei giardini interni degli alberghi, i clienti potevano finalmente crogiolarsi al sole, sotto vezzosi cappellini di paglia. E due splendidi cappelli di paglia erano appunto quelli che indossavano il signor Mark Goldman e sua moglie Betty quella calda mattina, mentre leggevano una copia dell’Herald Tribune nel giardinetto interno dell’Hotel Modigliani.
Sotto ai cappelli entrambi indossavano abiti casual con t-shirt coloratissime e jeans. Scintillanti collane indiane adornavano i loro colli mentre sulle sedie di fronte poggiavano i loro piedi rigorosamente nudi e abbronzati.
Mark era un artista di Carmel-by-the sea, in California, anche se era in realtà originario di New York City. Il suo studio da pittore si chiamava Marco, all’italiana, proprio come il nome del proprietario di quell’hotel che lui agganciò immediatamente con un: “Ehi, Sir, noi ci chiamiamo nello stesso modo !”.
E quando il proprietario ordinò un cappuccino e si mise a chiacchierare con lui, ecco che Mark passò subito ad illustrare in dettaglio tutti gli aspetti della sua attività artistica, iniziando proprio da quella scuola di pittura contemporanea che da giovane aveva frequentato a New York.
“Negli anni ’70, d’estate, andavamo a perfezionare la nostra tecnica a Firenze. Ma non tutti gli allievi venivano inviati lì, a spese della scuola. Sono i migliori, e io, naturalmente, ero uno di quelli”, diceva Mark, senza alcuna traccia di umiltà. Betty, nel frattempo, continuava a sfogliare il suo giornale, cercando ogni tanto di spostare la sedia per catturare al meglio qualche caldo raggio di sole.
“Mark è bravissimo”, diceva ogni tanto, prima di riprendere a leggere.
“Ho studiato moltissimo”, insisteva Mark. “Come Picasso sono passato dal disegno dal vero, alla natura, dallo studio dei visi agli oggetti. Fino ad arrivare a quello che a me interessava di più”.
“E sarebbe?”, domandò il proprietario, cercando di trattenere uno sbadiglio.
“Il nulla”, sentenziò immediatamente Mark, con uno straripante sorriso.
“Ah, ecco. Adesso è tutto chiaro”, commentò il povero italiano, ormai completamente frastornato.
Subito dopo Mark iniziò a parlare di Firenze e di quanto quelle estati italiane avevano influito sulla sua personalità di uomo e sulla sua tecnica pittorica.
“La sera andavamo a mangiare alla Trattoria Angiolino che si trovava nelle antiche scuderie di palazzo Frescobaldi. Ricordo che alle pareti c’erano i resti di un grande affresco di Pietro Annigoni. All’ingresso invece c’era un grande bancone di marmo dove io e il figlio del proprietario ci giocavamo la cena a braccio di ferro”.
“E chi vinceva?”
“Lui, è evidente, anche perché io ero troppo ubriaco di vino rosso toscano per essere minimamente competitivo. Così gli dicevo di segnare che avrei pagato il conto il giorno dopo. Cosa che, comunque, non feci mai”.
“E come andò a finire?”
“Andò a finire che un giorno suo padre si incavolò moltissimo e minacciò di chiamare la polizia, se non avessimo pagato una volte per tutte. Per fortuna che in quel gruppo di studenti americani c’era il figlio di un famoso miliardario di Wall Street, un certo Spencer, il quale si offrì di saldare lui. Tirò fuori un libretto assegni e ualà, tutto risolto”.
“E ualà…”, ripeté l’italiano, sperando che anche per il conto dell’albergo di Mark e signora  non  sarebbe dovuto intervenire qualche miliardario di passaggio.
Fu più o meno in quell’istante che l’eccentrica Betty tirò fuori dalla sua borsa l’ultimo modello di I-pod e, digitato l’indirizzo del sito del marito, iniziò a mostrare al povero proprietario tutte le opere dell’artista.
“Ecco qua”, commentò Mark, mentre, una dopo l’altra, si avvicendavano sullo schermo le foto delle sue opere.
Si trattava di quadri giganteschi del formato di circa due metri per tre. In realtà, più che quadri veri e propri, erano proprio semplici tele tutte bianche, così com’erano state costruite. Non c’era alcuna traccia di colore, né un colpo di pennello e neanche qualche squarcio di coltello alla Lucio Fontana o qualche sacco di tela appiccicata stile Alberto Burri. No, le opere di Mark Goldman erano solo tele bianche, di varie dimensioni, ma tutte assolutamente bianche.
“Il nulla”, confermò Betty, estasiata.
“Il nulla”, ripeté il proprietario, distrutto












mercoledì 5 dicembre 2007

Folclore ai piedi dello Scilar

Folclore ai piedi dello Scilar
Nell'Alto Adige, portare i Lederhosen, ovvero i calzoni corti di pelle e i calzettoni bianchi, significa da sempre sottolineare la fedeltà alla propria etnia (basti pensare che indossare il costume tirolese era proibito durante il periodo fascista). Nelle feste e nelle sfilate folcloristiche, le 210 bande musicali e le 140 compagnie degli Schuitzen (le associazioni sudtirolesi che si ispirano agli antichi corpi di tiratori scelti) presentano un magnifico quadro multicolore. Però nella vita quotidiana non esiste più un abbigliamento tipico caratteristico del Tirolo e il costume tradizionale sembra superato e fossilizzato nella storia. In generale, il costume degli uomini dell'800 era costituito da calzoni alla zuava di cuoio o di loden e giubbe di loden, per lo più grigie, brune o rosse. Caratteristiche del costume femminile erano il corpetto e la gonna pesante di Wiefling (misto di lino e lana) o di loden. Il corpetto e la pettorina a forma di cuore erano ornati e orlati con nastri e cordoncini variopinti. Alla fine dell'800 si è progressivamente consolidato un abbigliamento festivo tipico che ha avuto ampia diffusione fra la popolazione rurale di tutto Il Tirolo. Gli uomini indossavano giacca e pantaloni di loden scuro, panciotto e camicia di lino o di lana, una corta sciarpa al collo, un cappello nero, scarpe alte con le suole rinforzate da bullette. Le donne, adeguandosi alla moda di corte, indossavano un abito scuro molto morigerato, con gonna nera lunga fino alle caviglie, giacchetta nera accollata con colletto di pizzo sulla piccola scollatura, grembiule con riflessi cangianti multicolori, cappello nero con nastri di broccato larghi e lunghi

mercoledì 28 novembre 2007


Come dipingeva Alberto Buggè:
l’autore,in particolare,creava direttamente nella realtà l’oggetto della sua attenzione pittorica attraverso la costruzione di installazioni geometrizzanti: le stesse che poi raffigurava nel quadro,trasferendole in tal modo dalla tripla alla doppia dimensione. Prendevano così forma e vita pittorica delle scene che,mentre si rivelavano scrupolosamente realistiche, assumevano ciò non pertanto un sapore fantasioso, bizzarro e quindi, una valenza magica ciò anche perché gli oggetti e gli scenari con estrema sobrietà raffigurati non erano riconoscibili dallo spettatore per alcuna loro utilità o funzione pratica.Si è dunque in presenza di composizioni concepite e realizzate con l’impiego di piani, quinte e cose la cui collocazione nello spazio e l’esposizione alla luce è destinata a svolgere un compito puramente estetico; trattasi in breve di stimoli ad una emozione pittorica assunti nel sotteso stato d’animo d’una segreta e silente contemplazione della realtà






domenica 18 novembre 2007

Brugge- La Vergine ed Il Canonico

Belgio-Brugge- La Vergine ed Il Canonico van der Paele di Jean Van Eyck
La scuola di Pittura di Brugge doveva essere da tempo rinomata se nei secoli XV e XVI tutti i maggiori artisti fiamminghi accorrevano nella città per iscriversi in quelle corporazioni così come i fratelli Hubert e Jean van Eyck. Di questo ultimo nella sala I del Groninge Museum osserviamo la Vergine,santi e donatore,detta Madonna del Canonico van der Paele,del 1436 (la magia di questo grande capolavoro è data da vari elementi: i colori squillanti e contrastanti,la gioiosità del Bambino con il pappagallo, il realismo e la spiritualità del prelato

BELGIO - Viaggio nel paese incantato delle Fiandre

Viaggio nel paese incantato delle Fiandre

– fotografie di Elio Buggè - elioarte©

…….”Bruxelles, capitale e centro geografico del Belgio, documenta tutte le tappe della storia di questa piccola nazione.
Qui si scorgono tutti i contrasti e le divisioni dal medioevo mercantile ai fasti del barocco cattolico, dai palazzi di corte,
degni di una seconda Parigi, alle testimonianze delle avventure coloniali.
Nella zona fiamminga del Belgio, poi due paesi sono stupendi e lodevoli di note …… :

da un racconto di viaggio (maggio 2000)
di Simona Dragoni

BRUGGE
Nel tardo medioevo Brugge si trovò ad essere uno dei centri nevralgici del commercio europeo.
La ricchezza economica e culturale della città era dovuta in gran parte al volume degli scambi e
all’importanza del porto marittimo.
Nel giro di pochi anni Brugge divenne il passaggio quasi obbligato di tutti i commerci tra il nord e
il sud dell’Europa.
Le grandi famiglie di banchieri e mercanti italiani specializzati in complicate e innovative transazioni finanziarie,
avevano qui le loro sedi. Anche i fiorentini Medici, la dinastia di banchieri più famosi nella storia,
aprirono una filiale a Brugge
Le testimonianze di questo splendido passato sono ben visibili nella città fiamminga,
sia nella struttura sia nell’interno dei palazzi.
Inoltre, di quel tempo ,Brugge ha mantenuto il dono dell’ospitalità che fa di questa cittadina un
punto d’incontro ideale tra diverse culture e nazionalità.
E alla base di questo progetto sta appunto il tema dell’incontro : quello con i diversi sorprendenti
e originali allestimenti che nasceranno lungo un percorso tracciato all’interno del centro storico e
commerciale della città.
Il cuore vero e proprio di Brugge è costituito dall’impressionante piazza del mercato (Markt) e dal vicino castello.
L’edificio di maggior rilievo è la Torre Campanaria, resa preziosa da un carillon.
D’alto dei suoi 83 metri, essa offre un panorama indimenticabile della città e dei dintorni.
GENT (GAND)
https://www.flickr.com/photos/elioarte/1413870688/
Nessun’altra città delle Fiandre vanta tanti monumenti storici quanto Gent.
Chi visita la città di Artevelde, eroe nazionale fiammingo, si mette in cammino attraverso la storia dell’Europa.
La città è costruita alla confluenza della Schelda e della Leie.
Il profilo della città è caratterizzato da tre torri. La più imponente è quella della cattedrale di San Bavone,
duomo che coniuga parti in stile romanico, gotico e barocco e che merita una visita per diverse ragioni.
Qui fu battezzato l’imperatore Carlo Quinto.
Proprio cinquecento anni or sono dondolava a Gent la culla di Carlo Quinto.
Fu Carlo Quinto ad attribuire agli abitanti di Gent il soprannome di "portatori del cappio",
poiché essi dovettero chiedere perdono all’imperatore con un cappio attorno al collo.
Qui è esposto anche "l’Agnello Mistico", opera notissima dei fratelli Van Eyck.

La terza torre è il torrione unito alla Loggia dei mercanti di stoffe.
Il profilo del torrione, alto 95 metri, è l’orgoglioso simbolo della potenza delle corporazioni medievali.
Dall’altezza di 65 metri, la galleria superiore permette di godere il panorama unico della città.
Dove confluiscono Leie e Lieve sorge l’imponente Gravensteen, un castello acquatico medievale
del secolo XII, costruito dai Conti delle Fiandre.
Il castello ha resistito bene agli attacchi del tempo ed ospita ora un museo storico dedicato
alle pratiche della tortura e della giustizia. Dal tetto si gode di un bellissimo panorama del centro cittadino
Nella Vrijdagsmarkt, in centro alla quale sorge la statua di Jacob van Artevelde, si celebrano le Feste di Gent.
Per dieci giorni attorno al 21 luglio, giorno della festa nazionale, il centro di Gent è sottosopra.

giovedì 8 novembre 2007







Pantelleria

Parlando di Pantelleria, la più grande isola della Sicilia, la nostra mente non va semplicemente
ad una località di vacanza, ma ad un centro cosmopolita di villeggiatura. Per altro in questo luogo relativamente piccolo,ma dalle sue innumerevoli bellezze naturali, le vacanze si limitano ai soli tre mesi estivi, poiché la lunga presenza del sole rende le estati più lunghe.
Qui si potrà scegliere il tipo di vacanza ideale: le giornate intense in uno degli alberghi della costa,
con le loro attrezzature sportive, oppure la pace e la serenità in un piccolo paesino marino o
collinare, dalla tradizionale fisionomia pantesca



Il nuoto e le immersioni nelle acque cristalline dell'isola sono dei veri piaceri, sia tra le scogliere vulcaniche sia tra le isolate calette ciottolate.
Inoltre gli amanti dell'antichità si entusiasmeranno alla vista degli interessanti monumenti archeologici, testimonianze di una lunghissima civiltà, sparsi su tutta l'isola.

Pantelleria offre molto anche a chi ama muoversi in continuazione poiché una discreta rete stradale permette di visitare quasi ogni suo angolo.



L'isola è servita da voli charter settimanali da Milano, Roma, Bologna e Venezia ed un servizio giornaliero d’aerei dalla Siciliain coincidenza con i più importanti voli nazionali, oltre a quello, quotidiano di navi e d’aliscafo.

La storia



La movimentata storia dell’isola di Pantelleria è dovuta all'importanza della sua posizione geografica ed è strettamente collegata al mare.



Infatti dal mare arrivò il popolo dei Sesioti, per estrarre l'ossidiana la pietra nera e lucida considerata l'oro della preistoria.
Lasciò tracce molto importanti nella zona di Mursia il Muro Alto il più gran muro preistorico del Mediterraneo finora scoperto, il villaggio e soprattutto quel particolari monumenti funebri chiamati Sesi.
Intorno al IX secolo a.C. arrivarono i Fenici che la chiamarono Yrnim e poi Cossyra, fu questo il periodo d'oro di Pantelleria. L'introduzione della vite coltivata ad alberello, le fortificazioni e la strategica Acropoli in località San Marco, le numerose monete coniate nell'isola con l'effigie della dea Tanit, le cisterne a campana, i santuari del lago Specchio di Venere e di Bugeber, il porto e il primo nucleo del castello, sono solo alcuni esempi delle opere fenicie‑puniche sparse su tutto il territorio. Seguirono i Romani che oltre a migliorare le difese militari dell'isola con superbe fortificazioni , costruirono , in diversi punti dell’Isola, delle splendide ville decorate con stucchi e statue.



Poi arrivarono i Bizantini che abbellirono di mosaici le abitazioni e nel 700 d.C. gli Arabi.
La dominazione araba durò fino al 1200 e notevoli sono stati i prodotti di quella cultura.
I dammusi (dall'arabo damus: edificio a volta),sono prima di tutto, costruzioni particolari in blocchi di pietra lavica con il tetto a cupola.
Gli Arabi inoltre introdussero la coltura del cotone e dell'ulivo, migliorarono la produzíone dell'uva zibibbo e, ancora, fortificarono mirabilmente la Medina di Pantelleria
(oggi totalmente distrutta dal bombardamenti aerei della seconda guerra mondiale, attorno al Castello Aragonese.
Gli Arabi chiamarono l'isola al‑Quasayra: la piccola (nome tuttora usato dalle popolazioni
berbere del nord ‑Africa per designare Pantelleria ed in seguito Bent‑el‑Riah:
figlia del vento.



Poi arrivarono i Normanni cui succedettero gli Svevi, gli Angioini, gli Aragonesi e i Borboni . Nel 1860 l'isola fu annessa al Regno d'Italia.





martedì 30 ottobre 2007

Personaggi illustri di Seminara


fra' Barlaam nato a Seminara fu maestro di greco del Petrarca ad Avignone. In questa città Frà Bernardo ricopriva un importante ruolo di negoziatore fra le gerarchie cattoliche romane e lo stato Francese, per la composizione dei dissidi politici che, nel 1305, avevano portato al trasferimento della sede papale da Roma ad Avignone.
Il ritratto di fra' Barlaam presente nella copertina di questa pubblicazione è stato tratto da un dipinto che si trova preso la sala consiliare del Comune di Seminara (pittore Alberto Buggè)

mercoledì 24 ottobre 2007

SEMINARA ricorda un Pittore




Buggè dott Alberto

Magistrato a riposo. Pres. A.O. della S. Corte di Cassazione e Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine al merito della Repubblica. Pittore per vocazione. Autodidatta.
Nato il 1917
Morto nel luglio 2006

Riservato di natura e molto responsabile nella sua vita pubblica, fin dalla prima giovinezza dipinse in silenzio ,lontano da mostre , vernissage. In un assoluto isolamento artistico, rotto solo a tratti per pressioni esterne di alcuni amici , presentò qualche sua opera al pubblico e ne riscosse grande successo.
Pur seguendo le esperienze artistiche di Kandiscky, Klee, Pollock, egli se ne allontanò in una sua ricerca pressante e culturalmente avanzata , dove il “ Nulla “, sembra imperare.
Un Nulla fatto di luce di colore di spazio …………. Nichilismo pittorico

I quattro concorsi a premi i soli a cui ha partecipato e nei quali si è distinto con premi:
1 Pavia gennaio febbraio 1975 : Gruppo Culturale Ticino “ Arte Contemporanea al Castello di Pavia “, col patrocinio del Comune di Pavia, dell’Ente Provinciale Turismo e della famiglia artistica Milanese- Premio : Diploma con medaglia e targa premio per opera di alto interesse artistico.
2 Milano maggio 1975.- Primo Gran Premio della Stampa : Concorso Mostra di pittura 1975. Palazzo del Turismo - Milano organizzato dal gruppo Culturale Ticino con la collaborazione di “Tribuna Stampa” della “Famiglia Artistica Milanese” dell’Assessorato alla Cultura del Comune di Milano e con il patrocinio dell’Assessorato Cultura ,Turismo dell’Amministrazione Provinciale di Milano.- Premio : Diploma per la segnalazione speciale della Giuria e Premio Consiglio Regionale Lombardo : – Coppa
- 3 Milano Lombardia 75 Sala del Grechetto – Palazzo Soriani. Concorso Internazionale di Pittura Scultura e Grafica : Premio : Medaglia per la Sezione Pittura
4 Pavia Aprile 1977 Mostra collettiva Premio di Pittura “Pasquale Massacra”in collaborazione con “Lombardia Artistica” presso la Galleria d’Arte Viscontea ( Attività e scambi culturali, mostra, dibattiti tra le province lombarde, regioni italiane e associazioni artistiche della Comunità Europea ) Premio : Diploma e Coppa per meriti artistici e segnalazioni speciali della Giuria ---------------
Collettiva di Pittura Pavia 17-28 novembre 96 Galleria Broletto P.zza della Vittoria PAVIA ALBERTO BUGGE’ MAX CAMPANI SILVIA VANOSSI ESTE Non ha mai organizzato Mostre Personali in rispetto alla alta carica pubblica ricoperta nella sua vita. Si sono interessati della sua attività di pittore : http://www.imagobox.com. / http://www.artiflexgallery.it / http://www.dimensionearte.it/ e molti altri siti e gallerie d'arte on line.

martedì 23 ottobre 2007

Seminara nella Storia


Da un racconto “Giustizia d’Isabella d’Aragona” storia calabrese del secolo XVI.
Conserviamo a questo fatto d’armi la denominazione di Battaglia di Seminara dataci dagli storici;ma dovrebbe invece intitolarsi Battaglia del Metauro o del Petrace per la località ove accadde.



Battaglia di Seminara

La battaglia di Seminara della quale ci intratterremo, famosa ai tempi in cui ebbe luogo,tale rimase in tutti gli storici di quell’epoca.
Regnava allora sul trono di Napoli Ferdinando II di Casa d’ Aragona;ed il popolo lo chiamava
pure col nome di Re Ferrante,e di Re Ferrandino pel grande affetto che gli portava, perché lo
aveva visto nascere,crescere e giocare fanciullo in mezzo ad esso.
Egli fu il penultimo Re della sua dinastia;la quale spassionatamente giudicata da taluni storici contemporanei, e malamente studiata dai successivi fu dipinta come nefasta e tirannica, mentre non fu punto tale; anzi, fu la dinastia più benemerita dei progressi del Reame e della Sicilia, come dimostreremo nel corso del nostro racconto.
Ferdinando II. si trovò sul trono di Napoli all’età di 25 anni, vivente ancora il padre suo Alfonso II, che aveva abdicato in suo favore in momenti difficilissimi.
Carlo VIII .d ’Angiò, Re di Francia,insinuato da Ludovico il Moro, che fu il più potente e pernicioso nemico di Casa d’Aragona, era sceso in Italia per conquistare, o , come diceva, per vendicare il Regno di Napoli ed era già alle porte della capitale, quando, i re aragonesi furono costretti ad abbandonarla; e si rifuggirono nell’ospitale e fedele città di Messina.
Quivi, non guari dopo,furono raggiunti dai soccorsi che essi avevano chiesto a Ferdinando il Cattolico Re di Spagna loro congiunto, e spediti sotto il comando del generale Consalvo da Cordova, che in quell’occasione ebbe il pomposo titolo di Gran Capitano.
Tali soccorsi furono di 6000 fanti e 6ooo cavalleggeri ben forniti di munizioni,su 14 galee di prima classe.
A queste forze Consalvo unì l’esercito che ancora restava fedele e poi i volontari locali
assoldati per aumentare le file e dei quali formò il Corpo dei Calabresi, e base delle sue operazioni
militari fece la stessa città di Messina.
Il giorno dopo il suo arrivo, il 2 Giugno 1495 Consalvo ed il giovane Re, assediarono Reggio, la
ebbero dopo breve combattimento la munirono di presidio e avanzarono nella Calabria per
riconquistarla .Il che, riuscì loro senza grande contrasto, per gli scarsi nuclei di soldati francesi trovati di presidio nei diversi luoghi, e quasi di trionfo in trionfo giunsero a Seminara ove si diceva che fosse un grosso esercito di francesi.
Seminara in quel tempo era una delle città principali dell’estrema Calabria.
Guarnita di una cinta di mura di forma circolare aveva due porte, una che si apriva a Sud e l’altra dalla parte opposta, a Nord; un castello nel mezzo,compiva le sue fortificazioni.
Sorgeva la città sopra un altipiano collinoso e godeva di un vasto e pittoresco orizzonte che si apriva da nord ad ovest a sud-ovest, presentando agli sguardi dello spettatore tutta l’estesa pianura detta allora Piana di San Martino circoscritta dalla catena degli Appennini che culminano ad Aspromonte,interrotta da luoghi abitati, la maggior parte dei quali oggi non esistono più; ma fra i quali primeggiavano come città munite di mura e fortificazioni: Terranova, una vera e bella città,da due vie lunghe e diritte incrociatesi nel mezzo,divisa in quattro rioni; Oppido una delle più antiche; S. Martino che dava nome alla Piana ; S.Giorgio e Cinquefrondi, quantunque oggi decadute dalla primiera grandezza.
Quando giunsero a poca distanza da Seminara, Ferdinando e Consalvo posero le tende sulla pianura che distendevasi a mezzodì della città. Lo Stato maggiore era costituito da uomini in quel tempo

famosi nelle armi quali erano i fratelli Andrea,Giovanni e Bartolomeo dei Conti di Altavilla,
Ugo de Cardona,Teodoro Trivulzio, Emanuele Bonavides, Pietro di Paz, ed altri.

A questi debbonsi aggiungere i feudatari spodestati dagli Angioini, uno dei quali era Marino
Correale duca di Terranova e Reggio governatore di Gerace.

Formato il campo, Consalvo ordinò che le squadre del Corpo dei Calabresi occupassero le alture,
i passi e le strade, perché esperti dei luoghi: e bande di spagnoli andassero a depredare la campagna, mentre egli stava sull’attenti in loro difesa. E ciò non tanto per depredare, quanto per provocare il nemico a venir fuori per conoscere l’ardire e il numero.
Alla loro volta i francesi informati della presenza del nemico,avevano temerariamente spinto
delle bande di ricognizione per conoscere le posizioni, il numero e il movimento degli spagnoli.
Or accadde che un distaccamento di francesi che con tutta circospezione si ritirava dalla ricognizione fatta, fu scoperto dai calabresi che guardavano i passi, mentre si spingeva su per un
profondo vallone che correva fra il piano su cui era il campo spagnolo e le alture della città.
Emettere un urlo terribile per prevenire i compagni e gli spagnoli,coronare le creste del vallone e chiudere da su e da giù i francesi ed imporre loro la resa ,fu tutto un momento solo.
Se non che i francesi non si sgomentarono e si spinsero ad aprirsi il passo con le armi.
Il rumore fu grande, e, venuto in conoscenza del comandante la guarnigione di Seminara, corre
in soccorso dei suoi con un distaccamento.
Arriva sul luogo del conflitto,mentre già gli spagnoli anch’essi correvano a rinforzare i calabresi,
in gran numero,e con un reparto di cavalleria. Avviene una terribile zuffa dei pochi francesi contro lo sproporzionato numero di calabresi e di spagnoli;i quali assiepati intorno a quel manipolo di
prodi stretti oramai come in un cerchio di ferro,intimarono loro la resa.
Cedettero i francesi superstiti,e Consalvo approfittando del momento propizio ordina un movimento generale delle truppe per assediare e prendere la città. Rullano i tamburi,squillano le trombe,la cavalleria comandata da Consalvo prende la carica,il Re segue con la fanteria,le grida e gi evviva al Re e agli spagnoli echeggiano per l’aria;e mentre simulavano di muovere all’assalto arrivati alla porta della città ergono bandiera parlamentare.

Poco dopo si leva dalla torretta del palazzo della città anche una stessa bandiera,indizio di accoglimento di proposta, si ode la campanella della torretta che convoca i cittadini e si apre
la porta per l’entrata dei delegati pel parlamento.
 Erano questi:Andrea Altavilla, il Cardinale Ludovico d’Aragona e Marino Correale, seguiti da altri militi di riguardo; ed entrarono in città,in quella che il popolo correva come un torrente, da ogni via nella piazza centrale detta Piana dello Spirito Santo, per la chiesa omonima che ivi sorgeva, e dove aveva luogo il parlamento , mentre già voci di viva Aragona,viva Re Ferrandino,viva la Spagna si udivano di qua e di là.
Vennero innanzi i magistrati della città e, fatto segno che si doveva parlare, in un istante si ebbe
un generale silenzio.
Prende la parola Marino Correale, come quegli che era ben conosciuto, presenta i delegati e indi
prima il Cardinale e poi Altavilla e gli altri fecero intendere ai seminaresi che volessero preporre il Re Ferrandino, uomo di grande umanità e valore, il quale mentre regnava il padre avevano conosciuto per liberale e amorevole signore, ai francesi, uomini stranieri e crudeli , e che era venuto coll’esercito armato, con quella speranza che egli si credeva che i seminaresi, senza scordarsi punto dell’antica affezione verso il nome aragonese , subito aperte le porte dovessero ritornare a ubbidienza .
I discorsi degli oratori furono coronati da applausi generali inneggianti di viva al Re, agli Aragonesi, che giunsero fino a Consalvo. Questi allora fa andare i tamburi e le trombe, e si avvicina alla città facendo precedere i prigionieri francesi, in mezzo ai cavalleggeri  spagnoli,a bandiere spiegate.

Era uno spettacolo commovente ed imponente ad un tempo, vedere quei duecento francesi prigionieri,dimessi in sembiante ma fieri, fieri sempre pel dovere compiuto, che lanciavano sguardi d’ira ,di stizza e fremiti di rabbia in mezzo ai nemici raggianti in viso per la vittoria, e che quale trofeo di guerra,menavano quei prodi e mettevano in vista gli arnesi di cui li avevano disarmati.
I magnati della città fra’ quali Carlo Spinelli duca di essa, spediscono una commissione di persone ragguardevoli alla guarnigione che si chiusa nel castello per invitarla a cedere alla forza degli eventi ed uscire dalla Città.
I pochi soldati di Francia che restavano in castello, facendo di necessità virtù, accettarono la resa; ma a condizione di avere i prigionieri colle armi, seppelliti i morti,curati i feriti sino a che sarebbero stati in grado di partire anch’essi con armi e bagaglio, ed essi uscire dalla città con l’onore delle armi. Queste estreme e dignitose condizioni furono volentieri accettate dal Re e da
Consalvo, specialmente perché questi ci teneva ad essere anco lui un <>.

Si fecero ritornare quindi i prigionieri dai loro compagni usciti all’uopo sullo spianato del castello
Ed immediatamente andarono via silenziosi, ma in cuor loro frementi, dalla porta di Nord detta Porta de Borgo, mentre gli Spagnoli entravano rumorosi per quella di Sud.
Precedevano i trombetti ed i tamburi alcuni mentovati illustri condottieri che tenevano in mezzo il Cardinal d’Aragona che veniva benedicendo colla destra il popolo, il quale a tal vista s’inginocchiava facendo ala e abbassando il capo per ricevere la benedizione.
Seguiva il corpo della cavalleria e dietro a questa il Re a cavallo sotto un ricco baldacchino portato dai magnati della città. Alla destra del Re pompeggiava Consalvo ed alla sinistra Carlo Spinelli,
tutti a cavallo coperti da smaglianti armature e cimieri con grandi piume svolazzanti e colle spade sguainate e poggiate sulla coscia,mentre il Re, con viso raggiante atteggiato a simpatico sorriso di compiacimento,rispondeva con cenni del capo agli applausi che si levavano alle stelle in suo favore e misti alla voce di abbasso,di maledizione ai francesi che venivano da coloro che li odiavano.
Seguiva dopo del Re il corpo dei prodi ed arditi calabresi, e la fanteria. Feste con luminarie e divertimenti furono fatte in quei giorni; e si pensava di procedere innanzi alle conquiste delle
Calabrie <>
E già all’uopo Ferrandino aveva mandato innanzi Alfonso d’Avalos per occupare e tener libero di
ostacoli le terre e le castella lungo il cammino verso quella città.
Tutto rideva innanzi agli spagnoli, ma dovevano quelle loro gioie esser di poca durata.



Il presidio francese che era andato via con gli onori militari da Seminara, si diresse nella stessa notte
a raggiungere il Comandante generale e Governatore militare che risiedeva in Terranova, che era Monsignor Eberardo Stuard d’Aubigny, scozzese, al servizio del Re di Francia ed uomo di provato valore e di carattere forte .
Gli narrarono ciò che era accaduto; cioè ,come da gran numero di spagnoli erano state assalite le
bande di ricognizione mentre si ritiravano; avrebbero voluto cadere colle armi alla mano, specialmente quando videro correre in loro la guarnigione ch’era rimasta in Seminara; ma , con tutto che ebbe luogo un gran combattimento, circondati da quasi tutto l’esercito spagnolo,stimarono inutile ogni ulteriore resistenza, specialmente perché i cadaveri ed i feriti erano malmenati e calpestati dai nemici e credettero quindi più utile conservarsi in vita per ritornare a miglior tempo
addosso al nemico, si arresero alle istanze degli spagnoli.
Ceder dovettero anche quegli ultimi che erano rimasti in castello, perché la città era insorta e data a discrezione del potente nemico perché sorpresa mentre era sfornita di regolare difesa.
Arse di sdegno a tali nuove l’Aubigny pensando che era stata una grande vigliaccheria,per parte degli spagnoli,assalire e massacrare una piccola schiera,; né atto di valore impossessarsi di Seminara guarnita solo da un manipolo di soldati, e tanto lui quanto i suoi ufficiali fremettero e giudicarono di voler tosto vendicare la morte dei loro prodi connazionali, per mostrare alla Spagna e alla Italia come si deve combattere con gente di onore.
E con tutto che l’Aubigny si trovasse infermo,preso dalla brama di vendetta, spedì subito messaggi con i suoi ordini a tutti i distaccamenti delle sue truppe che si trovavano in Calabria; ed a quegli degli svizzeri e della cavalleria in Basilicata,comandati da suo fratello Persis d’Allegris, che in pieno assetto di guerra, a grandi giornate lo venissero a raggiungere in Terranova.
All’esercito francese così raccolto si unirono le genti e i cavalli di questi luoghi,forniti dai partigiani degli Angioini; cosichè , in brevissimo tempo l’esercito fu completamente costituito al campo di
Terranova e partì alla volta di Seminara per cacciare da essa gli spagnoli.
Il campo fu posto a tre miglia da questa città sulla riva destra del fiume che oggi ha il nome Petrace, ma allora chiamavasi fiume di Seminara e Metauro, e proprio nella pianura di San Leo, tutta boschi e cespugli, presso l’attuale Ponte vecchio, e quando fu in pien’ordine,l’Aubigny, comandante supremo, spedì i trombetti a cavallo sotto le mura di Seminara per sfidare gli spagnoli.
A questo avviso,Re Ferdinando che era di spiriti bollenti ed audacissimo,come si può essere alla
età sua di 25 anni,si accese di tanto zelo che avrebbe voluto scendere lì per lì a precipizio sul nemico;e tosto convocò a consiglio i suoi ufficiali. Parlò egli per primo esponendo come un nemico
arrogante, orgoglioso,dato alle prepotenze,che aveva invaso ed oppresso il suo popolo,non domo
dalle sconfitte fino ad ieri ricevute,osava ancora non solo, senza alcun diritto rimanere nel Regno suo,ma sfidare l’esercito aragonese,quell’esercito che contava grandi vittorie,comandato dall’illustre Consalvo da Cordova, da un Re e da valorosissimi condottieri,onore e vanto d’Italia, che sarebbero capaci da soli sbaragliare quell’accozzaglia di gente venduta ai nemici di casa d’Aragona.
I quali nemici,di una metà più numerosi,sarebbero assolutamente sconfitti dal valoroso esercito
spagnolo che essi conducevano.
Per ciò, con vibrata parola incitava tutti ad andar lieti ad incontrare l’inimico e fargli vedere come
bene combatte chi lo fa per rivendicare il trono dei padri suoi e la libertà dei suoi popoli, contro l’aggressione più ingiusta e sfacciata. Continuò dicendo come egli già vedeva vittorioso il suo
esercito correre da paese a paese fino al trionfo,nella sua patria e capitale. E chiuse con dire che, se per tutti questo avrebbe dovuto essere nei fati che egli dovesse cadere,oh!, essere il suo dovere di Re ed il suo ideale,cadere col ferro in mano per l’onore della sua dinastia e per la libertà del suo popolo,….
Consalvo che per alta prudenza,per dottrina e gran pratica nella scienza delle armi,non che per provato valore, la sapeva più lunga del giovane Re, facile all’entusiasmo e corrivo a menar le mani per l’impulso dell’età più che per senno, lasciò che egli finisse il suo discorso,e, presa la parola
e levate alte lodi,sincere e ben meritate peraltro dal giovane principe,dichiarò pur nondimeno che
egli fosse dolente di non condividere il nobile sentimento del Re, anzitutto perché non si deve mai
accettare battaglia da un nemico che non si conosce di numero e che deve supporsi ben preparato
ad offrirla. Dimostrò come l’esercito francese fosse composto da gente provetta nelle armi e risoluta per le patite onte, non per questo tenere egli i francesi in opinione di valenti guerrieri,ma assai temibili al primo attacco;mentre gli spagnoli quantunque avessero buon contingente di truppe regolari, essere egli di parere che queste non fossero da tanto da sostenere nel momento presente la
prova suprema delle armi in battaglia campale. Per ciò chiedeva che si soprassedesse per breve
tempo,fingere intanto noncuranza e disprezzo per la sfida, ed attendere il momento propizio per
dare addosso al nemico, specialmente dopo che raffreddato dal primo ribollimento e dopo riconosciuto il numero ed il suo essere.
Lasciarlo quindi riposare nel campo in quella valle di aere pestifero ove,prometteva, fra pochi giorni
decimato dalla malaria.
Rimase colpito il Re da questo contrario avviso del Gran Capitano, tornò a parlare e si studia, da bel parlatore qual’era, e si sforza con ogni argomento a farlo recedere dall’espresso pensiero,
Consalvo a sua volta credè prudenza tener fermo, e sostenne che lo stato delle sue armi permetteva solo di tenersi pel momento sulle difese, e venir alle mani col nemico appena gli parrebbe venuto
il momento propizio,od almeno,impegnarsi in un’azione decisiva solo se si vedessero aggrediti.
Se non che il Re, ritornato alla parola comincia con mirabile forma eufemistica da perfetto cavaliere a manifestare la sua indignazione e nel calore del discorso si lasciò trascorrere a dire che i suoi congiunti,i Reali di Spagna, non per niente gli avevano spedito le truppe e che egli stesso non per
Questo era partito da Messina lasciando il padre infermo e quasi moribondo, ed avesse combattuto con tanto zelo e successo; non dover quindi attendere che il francese fosse ingrossato dei rinforzi che attendeva dovessero approdare a Gioia, né aspettare che fosse ridotto da ipotetiche infermità.per essere combattuto; che se altri non volessero seguire, essere pur egli padrone e comandante supremo dell’esercito e arbitro della guerra, ed avere il coraggio di marciare solo, contro il nemico, e condurre egli i suoi soldati sul campo di battaglia.
Le accese parole di Ferrandino finirono per infiammare di entusiasmo tutti gli ufficiali, e ,riferite
fuori nel popolo e nell’esercito che stava raccolto in campo trincerato,emisero tutti un generale grido di evviva al Re, evviva Fernandino ecc. e per ciò gli ufficiali che stavano a parlamento furono tutti di opinione che si venisse a giornata,qualunque potesse esserne l’esito. A ciò Consalvo non potè più opporre resistenza; e riassumendo tutto quanto si era discusso, terminò il parlamento con
un infiammata arringa, nella quale incitava tutti a combattere quei valorosi che erano.
Ferrandino,Consalvo ed altri capitani corsero tra le file dei soldati per comunicare la loro decisione,
per incoraggiarli a prepararsi al combattimento del domani.
Coi preparativi della guerra ebbe luogo pure un festino al campo con doppia razione di cibarie, e tutti si prepararono per andare il mattino seguente contro il nemico.
Era il giorno di Domenica 21 giugno 1495. Una splendida aurora sin dalle quattro del mattino preannunziava la più lunga e luminosa giornata dell’anno che entrava nel solstizio estivo.
Al campo spagnolo le trombe e i tamburi suonarono più per tempo la diana e l’ordine della partenza
per la battaglia, ed in breve tutti furono pronti in armi e bagaglio e partirono.
Attraversati per poco più di un’ora i colli e le vallette ricchi di pampini e di frutteti, coperti di rugiada e di frescura, e che degradando dalle alture di Seminara scendono al nebbioso fiume Petrace, sulla riva sinistra di esso, a vista dell’esercito nemico si sono fermati ordinandosi in questo modo.
Sul corso sinistro la fanteria, sul destro a mò di ala tutta la cavalleria; dietro tutti i calabresi, come corpo di riserva.
Tra la fanteria spagnola e gli italiani stava il Re, in mezzo a 500 ronconieri scelti per la guardia della sua persona che a cavallo emergeva fra tutti, perché vestito di un’armatura tutta dorata e sfolgorante,con un cimiero in testa ornato di grandi piume a vari colori.
Così disposti attendevano che i francesi guadassero il fiume per buttarsi loro addosso.
Questi comandati dal d’Allegris e dal d’Aubigny, si disposero in quadrato serrato, cogli svizzeri
ed i guasconi di fronte al nemico, dietro a questi la fanteria e, come retroguardia , a tergo di essa
gli italiani a piedi ed a cavallo. La cavalleria, composta di 800 cavalli e 400 uomini d’arme divisi tra i due fratelli condottieri metà per uno, fu posta ai fianchi dei pedoni.
Allo spuntar degli spagnoli i francesi si mossero in serrata falange,guadarono il fiume ed entrarono nel terreno nemico. A questo movimento gli spagnoli pensarono dapprima servirsi di uno stratagemma per tentare di disgregare il quadrato francese; ed una squadra di cavalleria, levando grida ed urli si spinse di carica sull’ala destra della cavalleria nemica, ma non l’aveva puranco raggiunta che voltò indietro per essere inseguita.
Con questa manovra che era una certa maniera spagnola di combattere credevasi che avrebbero potuto far rompere l’ordinanza del formidabile quadrato, col distaccare e venire innanzi il fronte e il fianco e combatterla al largo isolatamente, mentre poi il resto dell’esercito che sarebbe stato costretto a soccorrere la truppa distaccata, sarebbe assalito e oppresso dalla fanteria. Dalla cavalleria e dal corpo degli italiani.
Invece in questo primo momento, non indovinato, sortì l’effetto contrario a quello che si aspettava
e determinò dal bel primo la rotta degli spagnoli; perché la cavalleria che stava ai due lati dei fanti
carica da ambo le parti immediatamente i fuggenti, prima che si movessero gli svizzeri che stavano alle prime file. La fanteria spagnola, non comprendendo quell’indietreggiare di corsa della sua cavalleria,lo crede fuga; perché la vede inseguita e circondata dalla cavalleria francese si disamina e, invece di correre al combattimento quando la cavalleria tornava all’assalto, si sbanda generando la peggior confusione.
Il Re , vide il pericolo; e per impedire la fuga della fanteria lascia i suoi e si spinge temerariamente innanzi. Succede in quel momento un movimento generale dei due eserciti, l’uno contro dell’altro :
il Re si abbandona al combattimento come un leone,atterrando quanti hanno la sventura di capitare da sinistra e da destra sotto i colpi del suo squadrone.
Il movimento, la mischia, la confusione, la lotta divengono terribili,furibonde: non si bada che a
colpire e difendersi. Già i 500 Ronconieri che seguivano il Re sono quasi tutti caduti intorno a lui, che più volte aveva tirato addosso all’Aubigny, che aveva ben saputo guardarsi quei terribili colpi.
Dei valorosi ronconieri non restano che pochi al Re, combattono strenuamente con lui che, conosciuto dall’armatura, è fatto segno dei colpi dei francesi, gli ufficiali dei quali si sforzano a raggiungerlo e farlo prigioniero. Si difende egli disperatamente e così è ancora difeso dai suoi ufficiali, che ,finalmente, vista le giornata perduta, gli impongono di fuggire, ma Ferrandino non vuole lasciare la battaglia ed abbandonare i suoi valorosi. Se non che in un istante, il suo cavallo,
ferito per la terza volta,mentre si spingeva ad un movimento retrogrado per salvarsi con la fuga, non può più resistere,quando un terribile colpo di azza sventra quasi in tutto il valoroso destriero.
Cade urlando come il bucefalo il generoso quadrupede e trascina appresso il Re suo cavaliere, impigliato fra arcioni e le staffe. In distanza se ne accorgono Persis e d’Aubigny e corrono per prenderlo vivo, ma i valorosi soldati italiani che erano stati messi alla coda dell’esercito, si battano da eroi per salvargli la ritirata, e i fratelli Altavilla compiscono per ciò atti di esimio coraggio.
Di essi, Giovanni, vide cadere il Re, e , sbalzato a terra lo svincola, lo rimette in piede, lo fa balzare sul suo cavallo ed ordina che gli italiani rimasti illesi ed il Re fuggano per metterlo in salvo.
Ferrandino, gonfio di rabbia e di disperazione cerca di resistere, grida di voler morire con i suoi soldati e si spinge di nuovo alla carica; ma è strappato, messo fuori dalla mischia dagli italiani e
dallo stesso Consalvo che era giunto a tempo per salvarlo, mentre dava l’ordine per la ritirata.
La giornata era perduta, quantunque valorosamente, per gli Spagnoli,caduti per un equivoco e pel
doppio numero di nemici che dovettero combattere.
Il sole del pomeriggio dardeggiava sulle arene e nella valle del Petrace, e Ferrandino obbedendo al consiglio di salvarsi, pallido, fremente ,coperto di polvere e di sudore, ansante, oppilato e seguito dai suoi fidi italiani tutti a cavallo, prende la via di Palmi.
Egli si era comportato da Re,si potrebbe tacciare di avventatezza e di imprudenza, per non aver fatto tesoro del consiglio di Consalvo, ma gli spiriti bollenti dell’età sua, l’amor proprio, e la propria dignità lo scusano di fronte alla Storia. Nella battaglia si portò da eroe ed il suo valore ha poco riscontro nella storia stessa.

Raccolti come potette i superstiti che non arrivavano a metà dell’esercito condotto a quel macello,
Consalvo fece alzare bandiera bianca col segnale per poter raccogliere i feriti e dar loro sepoltura ai morti, e .lasciati 800 soldati per questo pietoso ufficio ritornò con gli altri a Seminara. Ivi raccolte
i bagagli e tutte le cose preziose, rincuora i seminaresi , li ringrazia delle accoglienze e raccomandando loro la massima prudenza e rispetto verso i francesi e carità pei feriti che sarebbero portati fra breve, diede promessa che sarebbe non guari dopo tornato alla rivincita
con un buon esercito; si spinse coi suoi su pei Piani della Corona sapendo sgombra la via di nemici e corse a rinchiudersi in Reggio.
Le conseguenze di questa giornata , che come dicemmo restò famosa nelle storie, non furono quali
potevano essere, fatali per la nostra regione.
Il d’Aubigny si comportò da uomo oltre ogni dire moderato, perché non perseguitare,né inseguire e massacrare in tutto i superstiti nemici, né andare per quel giorno oltre il campo di battaglia, fu un atto di grande prudenza.
I suoi gridarono che egli non sapeva usare della vittoria col fare prigionieri tanti illustri capitani italiani e spagnoli, né riprendere e vendicarsi di Seminara. Se non che il d’Aubigny colla giornata che aveva combattuto più che un’azione materiale e interessata, aveva avuto di mira una tutta morale, per risollevare le armi francesi nella pubblica opinione.
Ottenuto questo, in modo strepitoso, con l’avere vinto un Re in persona, il più illustre capitano che vantasse la nazione spagnola e tanti italiani eminenti per casato e valore, non voleva certo guastare il suo trionfo con atti di intemperanza e di vendetta. D’altronde, egli sapeva che la conquista del Regno così rapidamente fatta da Carlo VIII era mal sicura e che non poteva egli avere speranza di aiuti dalla Francia e perciò da uomo prudente ben si avvisò di mostrarsi umano.
Re Ferrandino intanto si era diretto a Palmi ove fu cordialmente accolto, ristorato da quei terrazzani e provvisto d’imbarco per Bagnara, come a luogo rinomato allora per commercio.
Quivi ebbe anche cordiali accoglienze e passaggio pel Porto d’Ercole, oggi Tropea,per raggiungere colà la sua squadra e ricondurla al sicuro nel porto di Messina.


APPENDICE

Perché i nostri lettori posano formarsi un esatto concetto delle cause e delle conseguenze politiche
Di questa seconda battaglia combattutasi nella nostra Piana tra francesi e spagnoli,crediamo necessaria una succinta esposizione dei molteplici e vari avvenimenti che con rapide, incessanti vicende si successero nel nostro estremo meridionale, dal cadere del XV al sorgere del XVI secolo.
Tristi tempi in vero quelli, nei quali si vedevano ancora italiani di ogni grado combattere contro
I loro fratelli italiani accanto a mercenarie soldatesche straniere, sostenitori di Re ambiziosi e tiranni, venuti di oltralpe alla conquista di queste terre infelici, che, dopo la caduta del grandioso impero di ROMA, quando il civis romanus sum imponeva rispetto allo universo, erano diventate per molti secoli come res nullius.
Sarà la nostra una breve digressione, della quale chiediamo venia ai nostri lettori cortesi e gentili, perché speriamo, sarà loro per riuscire lettura piacevole e grata.
La battaglia di Seminara che abbiamo descritta non apportò vero utile ai vincitori, i quali ,per altro,
ben sapendo che avevano troppo poco da guadagnare in fine per se stessi, la avevano voluta, più che altro,come un motivo decorativo della loro spavalderia.
Fatale per i miseri caduti, che nel fiore degli anni perdettero la vita trascinati a quel macello non certo per una causa interamente nobile e lodevole,non fece altro che arrestare per un momento, quasi al suo inizio la marcia che Re Ferdinando II ,e Consalvo da Cordova avevano intrapresa alla conquista del Regno di Napoli per la parte del Tirreno.
L’Aubigny e gli altri ufficiali col resto dell’esercito vittorioso erano ritornati a Terranova, e di là, a Gerace, ove, quegli rimasto per lunga infermità, si vide poi abbandonato, perché l’esercito era andato ad unirsi al Duca di Montpensier, ed indi a non molto dovette con gran rammarico e per favore degli spagnoli tornarsene in Francia.
Consalvo tornò a Reggio, e approfittando delle condizioni di salute dell’Aubigny, in breve per la via dello Ionio occupò Crotone, Squillace, Nicastro, Cosenza, Mileto,Terranova e Seminara di bel
Nuovo. Intanto i francesi che si erano in breve resi odiosissimi in tutta Italia per il loro sfacciato,imprudente e prepotente libertinaggio erano esecrati da tutti e da ognuno era desiderato il legittimo spodestato monarca.
Il Re Ferrandino richiamato per ciò dal popolo napoletano rientrava in Napoli in mezzo al delirio clamorosissimo della gioia generale, mentre già Carlo VIII, venuto in conoscenza della lega dei
principi italiani, stretta contro di lui, fuggiva quasi a precipizio ed incontrava sul fiume Taro le schiere degli alleati, colle quali costretto a battersi nella strepitosa giornata del 6 luglio 1495, con
suo grande terrore, fu un filo di capello che non cadesse in mano dei nemici.
Era stato per Carlo VIII, quella del Regno di Napoli un’impresa disgraziatissima,alla quale si era lasciato adescare dalle lusinghe sia dell’infamia di Lodovico il Moro, sia dalla propria ambizione.
E diciamo disgraziatissima quell’impresa perché gia quando era in Asti era stato attaccato dal vaiolo, in Firenze aveva avuto quell’accoglienza per la quale restò famoso Pier Capponi,il Pontefice lo esecrava,mentre i napoletani ed il resto d’Italia lo maledicevano;e dopo la sconfitta di Fornovo gli rimase tale sinistra impressione di quella venuta in Italia che, quando si vide salvo per miracolo in Francia, giurò che non avrebbe più portate le armi contro il Re di Napoli.
Intanto le popolazioni erano tutte insorte contro le guarnigioni francesi rimaste in diversi punti del Regno, le quali guarnigioni, abbandonate dal loro Re, furono poi costrette di partirsi dal Regno,
immiserite, decimate,allo estremo per malattie,per fame e pel freddo, rimanendo molti ancora sfiniti nel tragitto per mare.
Il reame di Napoli ritornato così sotto lo scettro di Ferrantino II di Aragona, pareva che risorgesse a novella speranza di bene duratura perché il giovane Re si era dimostrato principe oltre che valorosissimo, dotato di alta mente e mobilissimo cuore .Quando, inaspettatamente, dopo solo diciotto mesi di regno, mentre ancora la reggia risuonava delle feste delle sue nozze con la principessa Giovanna di Aragona bella e virtuosa giovinetta di 17 anni sua congiunta, sorpreso da
febbre perniciosa, in pochi giorni il povero Ferrandino cessò di vivere dopo appena 38 giorni di matrimonio, il 5 ottobre 1496 alla purtroppo tenera età di 39 anni.
La sua tomba fu chiusa tra le lagrime di tutto il regno.
Il Giovio scive che: “nessun re fu mai sepolto con maggiori o veramente con più vere lagrime d’ogni qualità d’uomini” e Giuliano Passaro, altro storico di quei tempi non ha parole che gli bastano a deplorarne la perdita, soggiungendo che: “per Napoli, grandi e piccoli davano la testa per le mura per lo grande dolore”, giacchè come ben dice il Volpicella, Ferrandino aveva riacquistato
il regno paterno col sorriso sul volto e con la spada nel pugno,e per ciò era idolatrato dai suoi popoli.
Il trono di Napoli doveva cadere alla vedova giovinetta, così desiderava il popolo,oppure alla sorella del Re, la virtuosa quanto sventuratissima Isabella di Aragona, già duchessa di Milano.
Ma i baroni che avevano perduto la fiducia nel governo muliebre, vollero mettere sul trono stesso Federico d’Aragona, Conte d’Altamura e di Taranto, zio del defunto, Federico però, se era dotato di cuore nobile e leale e le popolazioni molto s‘impromettevano della sua bontà tuttavia la sua mediocre intelligenza lo rendeva debole, irresoluto, amante più della pace che della guerra.
Venne intanto a morte Carlo VIII e successe sul trono di Francia Luigi XII, che tanto danno doveva essere all’Italia ed ai suoi soldati qui condotti per conquistare la Lombardia , contro Lodovico il
Moro ed il Reame contro Federico di Aragona. A questo fine egli si uni in segreta lega col re di Spagna Ferdinando II il Cattolico, congiunto di Federico, che aveva visto di mal occhio la elezione di lui a re di Napoli, su cui egli aveva pretese di successione.
I due potenti firmarono tra loro di conquistare e spartirsi il Regno di Napoli in questo modo: che
Quello di Francia dovesse possedere Napoli con tutta terra di Lavoro e lo Abruzzo, e quello di
Spagna la Calabria, la Basilicata, la Puglia e la Terra d’Otranto per essere alla sua Sicilia vicine.
L’infelice ed ingenuo Federico, accortosi, ma tardi,dello atroce inganno e della sua insufficienza,
che mentre sperava di guadagnare il rispetto di ambedue gli ambiziosi era tradito dall’uno e dall’altro. Il 26 giugno del 1501 papa Alessandro VI depone re Federico,nell’agosto del 1501 i
francesi entrano in Napoli, e Federico preferì darsi in mano al saputo nemico anziché al creduto amico, e da quello condotto in Francia, dopo quattro anni finì di vivere quasi di crepacuore.
Così ebbe termine il primo Regno di Napoli indipendente e andò ad unirsi colla Sicilia nella soggezione straniera diventando un semplice possedimento, una provincia della lontana Spagna.
I francesi dunque,guidati dal Duca di Nemours e dal noto generale d’Aubigny, penetrarono nel Reame per le parti di Terra di Lavoro, mentre gli spagnoli vi entravano per le Calabrie condotti da Consalvo da Cordova. Ma al compimento dei fatti nel dividersi la preda si ruppe guerra tra
francesi e spagnoli. Dapprima si combattè con varia fortuna, più favorevole ai francesi, in piccoli scontri, ma, quando gli italiani capitanati da Fabrizio Colonna si unirono con gli spagnoli, fu abbattuta la tracotanza dei francesi nella famosa disfida di Barletta del 13 febbraio 1503, e poco dopo nella memoranda giornata di Venerdì Santo del 10 aprile 1503, combattuta non poco lontano
da Seminara ,battaglia del Pontevecchio, ed in ultimo in quelle dalla Cerignola e del Garignano, i francesi furono interamente sconfitti.
Ora quest’ultima battaglia di Seminara, secondo gli storici contemporanei di maggior grido. avvenne nelle circostanze che esporremo.
Qui dovremmo parlare dei gravissimi fatti di armi avvenuti nella nostra Piana fra S. Giorgio, Polistena, Cittanova e Terranova, ma , siccome di ciò ci intratterremo altra volta, diremo adesso della accennata battaglia di Seminara,ove i francesi furono rotti e presi, come il Guicciardini mestamente considerava, in quei luoghi medesimi dove pochi anni innanzi avevano con tanta gloria superato e rotto re Ferdinando e Consalvo. Tanto è poco costante la prosperità della fortuna!
Le condizioni dell’esercito spagnolo sparso per l’Italia meridionale erano disastrose al cadere del
1502,scarsi di numero e mancanti di approvvigionamento. Nella nostra Calabria un buon numero
erano stanziati a Reggio , a Gerace, a Seminara ed a Terranova. I francesi stavano a Bovalino, allora detto Motta Bufalina, alla Angitola e ad altri luoghi,con ordine del Re di non esporsi a battaglia campale, sia perché erano in corso trattative di pace, sia perché si aspettava dalla Francia gran rinforzo di armati e di munizioni. Il loro morale si manteneva elevato per le frequenti vittorie, nonostante le batoste toccate a Barletta. Dall’una parte e dall’altra valorosi e nobili ufficiali comandavano gli esrciti, ed è bello osservare nella presente fazione come un esercito cercasse di sopraffare l’altro coll’astuzia e colla sorpresa. Era come un gioco terribile comandato dalla morte.
Mentre i due eserciti si spiavano i movimenti, un buon rinforzo giunge per via della Sicilia agli spagnoli sotto il comando del generale Alfonso Corvaiale e i fratelli de Andrada.
Questi senza por tempo in mezzo approdati a Reggio avvisano del loro arrivo Ugo de Cordova in Gerace e di conserva si dirigono per Terranova ove presto si uniscono.
A questo movimento, il generale d’Aubigny uscì anco lui da Bovalino e varcati i monti si diresse a Polistena colla fanteria ed a Rosarno colla cavalleria e da qui si mosse per Terranova e Seminara per provocare a giornata gli spagnoli. Costoro lo prevennero e corsero ad occupare la collina di San Giovanni in Lauro, castello oggi non più esistente ma che lasciò il nome alla contrada, non molto lontano da Seminara. Questi luoghi ridestavano nell’Aubigny e nei suoi commilitoni i bei ricordi delle precedenti vittorie, massime di quelle strepitosissime del 1495 e perciò con l’animo pieno della fiducia in un’altra e finale battaglia che lo avrebbe fatto padrone della Calabria, rincuorò i
suoi alla pugna e mandò gli araldi a sfidare, com’ era allora di uso, con le peggiori insolenze ed invettive gl’inimici a scendere al combattimento. Gli spagnoli accettarono, e, ordinate le loro truppe
presero posizione in modo da cogliere l’Aubigny di fonte e dal lato destro.
Questi se ne accorse e, lasciata prestamente la collina di S Giovanni, guadò il fiume e si diresse a Gioia per avere alle spalle un luogo di appoggio e di rifugio in caso di avversa fortuna.
Gli spagnoli che cercavano allora coglierlo alle spalle lo seguitavano e guadarono anch’essi il fiume. In quel tempo, come sempre suol avvenire nella primavera , il Petrace era gonfio di acque
sicchè i soldati della cavalleria dovettero passare in groppa quelli della fanteria.
Dopo quest’operazione i francesi si accamparono in Gioia ove si trincerarono e guarnirono la riva del fiume con quattro pezzi di artiglieria, la quale allora in uno stato bastantamente primitivo, perché all’inizio del suo uso, faceva la prima comparsa in Calabria.
Gli spagnoli alla loro volta posero il campo nella pianura di S.Leo Così stettero i due eserciti nemici per quella sera,potenti entrambi di circa ottomila uomini ciascuno, e pensierosi di dare
tosto battaglia.
Era sorto intanto il giorno di Venerdì Santo di quell’anno 1503, che alcuni storici fanno cadere il
14, altri il 19 di aprile, ma che stando al Guicciardini ed al suo annotatore, tale giorno era il 10 come è pure nostra opinione. Una splendida giornata primaverile come quelle che per lo più sogliono venire nella settimana maggiore quando cade in aprile, ricca di luce, di profumi campestri e di speranza, sorrideva in quel tempo.
I due eserciti ciascuno divisi in tre forti schiere comandate da valorosissimi e provati militari stavano nella pianura che si distende dal Ponte vecchio in giù, intenti entrambi a mettere in opera le insidie per dare addosso al nemico all’inaspettata.
A quest’oggetto, gli spagnoli per primi fanno muovere il generale Emanuele Bonavides col corpo all’avanguardia da lui comandata, sotto aspetto di parlamentare coll’Aubigny va a trovarlo e s’intrattengono infatti a discorrere, stando ognuno sulla riva.
Intanto il retroguardo spagnolo che costituiva la terza squadra, prendendo il largo più in sopra, cerca, . con un movimento di evoluzione da destra a sinistra colpire l’Aubigny alle spalle,mentre il grosso dell’esercito della seconda squadra movendosi in mezzo a tempo opportuno lo avrebbe colpito di fronte e scoprendosi poi il Bonavides lo avrebbe battuto dall’altro fianco.
Circondare quindi da tre parti i francesi era il pensiero degli spagnoli. Se non chè l’astuto ed accorto generale francese, intravedendo il pericolo abbandona il suo interlocutore e rapidamente fa muovere l’esercito suo prima che l’antiguardo ed il resto degli spagnoli fossero tutti passati nella sua riva, ma non fu più in tempo, perché l’esercito spagnolo era già transitato: L’Aubigny allora si serra in falange in pieno ordine di battaglia e da addosso agli spagnoli. Comincia una zuffa poderosa, micidiale. Nella prima ordinanza dell’esercito francese combatte l’Aubigny come un leone contro il corpo sinistro degli spagnoli comandato da Emanuele Bonavides. Questi piega per un momento al formidabile impeto dei francesi e degli scozzesi dell’Aubigny, ma è soccorso in tempo da don Ugo,dal fratello Antonio Bonavides e dell’Avensado. Fra tutti si accende una mischia terribile, nella quale essendosi disordinata la schiera dell’Aubigny, stava egli per cadere nelle mani dei
nemici se non fosse stato soccorso dal valoroso Corvaiale che colpendo alle spalle i combattenti
li mette per un istante in scompiglio e in un movimento di dietro fronte, durante il quale l’Aubigny
ed i superstiti della sua squadra si danno alla fuga.
In questo mentre la cavalleria di Andrada fa strage della seconda squadra francese comandata da Alfonso Sanseverino soccorsa dalla terza, condotta da Onorato fratello di lui. Lottano, feriscono,scannano, atterrano in spaventevole modo l’un contro l’altro i due eserciti, calpestando fanti e cavalli i morti e i feriti e pare non vogliano lasciare il campo se non quando un solo non sia più in vita. Se non che finalmente, il valore e il numero delle schiere spagnole gridano vittoria e resa ai francesi superstiti, i quali non potendo più sostenere l’impeto dei nemici si danno a precipitosa fuga e corrono a porsi in salvo a Gioia, lasciando sul campo circa sei mila uomini tra morti e feriti e la vittoria strepitosa e definitiva agli spagnoli.
Questa battaglia, incredibile a credersi, si svolse in poco più di mezz’ora, tanto era in quei tempi l’agilità,la sveltezza,la rapidità dei movimenti, la rabbia e la ferocia degli accaniti rivali.
Essa avvenne nel pomeriggio del detto giorno,nella pianura che si distende dal Ponte vecchio di Palmi in giù.
Postosi i superstiti vincitori e disposto il trasporto dei feriti in Seminara, ed il sotterramento dei loro morti, una schiera dei più valorosi e disponibili mena in trofeo i prigionieri francesi nella stessa città, ed una squadra con prestezza insegue d’Aubigny a Gioia, per avere prigione anco lui.
Ma egli subodorando il vento infido abbandona Gioia e col favor della notte lunare arriva al mattino di pasqua a chiudersi nel castello dell’Angitola. Da quivi poscia per capitolazione, sconfortato dalla generale sconfitta dei suoi connazionali ed il fallimento dell’impresa del novello suo Re, senza alcuna speranza di aiuto, ottiene dal vincitore di ritornare in Francia, con gli altri valorosi campioni
fatti prigionieri con le armi in mano e poi messi in libertà dalla generosità di Consalvo, il quale aveva ordinato per tutto, generale armoniche feste e trionfo,massime perché Ferdinando il Cattolico, suo re, lo aveva insignito della carica di Viceré del Regno di Napoli, ed investito della contea di Gerace, del Ducato di Terranova,di Mileto, del Marchesato di Gioia, di Polistena e di S.Giorgio come guiderdone del suo valore e delle sue fatiche sostenute nelle due imprese di Napoli.
Questa fu la seconda battaglia di Seminara, così famosa nelle storie, così feconda di miserie per le nostre regioni apportate dalla disastrosa dominazione viciregnale, due volte secolare, cui la sconfitta dei francesi lasciò luogo per sempre.
Un illustre e storiografo, come buon poeta, Domenico Spanò Bolani su questa battaglia, in rapporto colle nostre popolazioni, scrisse un bel sonetto che ci è piaciuto riportare come chiusa e conclusione
del nostro lavoro:
Sono a fronte i nemici; il cozzo e ‘l lampo
Veggio de’ brandi anch’io.Gallo ed Ibero
Del nostro suol contrastansi l’impero,
E Seminara alla tenzone è campo
Scontrasi ai fianchi, al centro; urtasi e vampo

E’ l’ira all’ira ed all’eccidio. Al fero
Impeto trema il cor d’ogni guerrero
Cui sol la morte, o la vittoria è scampo
S’apron le schiere; all’ordine succede
Scompiglio e fuga!…tutto sangue è il piano!
Vince l’Ibero; il Franco è rotto, e cede.
Che fa il Calabro intanto? Ei da lontano
Chi si contende la sua patria vede,
e piega il collo al vincitor Ispano.

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SEMINARA nella Calabria



Benvenuti a Seminara
Seminara, comune della Provincia di Reggio Calabria, è composta dal centro e da tre frazioni: BARRITTERI, che dista 5 Km dal centro; S. ANNA, che dista 2 Km e PAPARONE a 6 Km. Il suo territorio si estende per Kmq 33,55 confinando con i comuni di Palmi, Bagnara, Gioia Tauro, Melicucco, Oppido Mamertina, Rizziconi, S. Procopio e con il Mar Tirreno. Dista 54 Km dal capoluogo REGGIO CALABRIA.
Come arrivare
Seminara da alcuni studiosi è ritenuta fondata tra il settimo e l'ottavo secolo, quando Taureana era già stata gravemente danneggiata o da Saraceni di Africa in qualche loro scorreria ovvero dai Longobardi verso la fine del VI secolo dell'era volgare. La città sorse, pertanto, in epoca nella quale l'unica lingua conosciuta era quella greca e greca era la sua denominazione. Era cinta di mura, protetta da un castello e sorgeva su un'altura: quindi, luogo degno di rispetto perchè poteva resistere ad assalti nemici. Mura presenti ancora oggi che circondano la zona del Borgo (S. Antonio). Seminara, infatti, riuscì a resistere varie volte agli assalti dei saraceni nel IX e X secolo. Nell'ultimo assalto del 951 un'orda di Arageni, Mori e Cartaginesi assalì e distrusse Taureana, i cui abitanti, consapevoli di non potersi apprestare a valida difesa, trovarono scampo nei vicini castelli, la maggior parte a Seminara. Questo esodo forzato della popolazione di Taureana, colonia greca, segnò la grecizzazione di Seminara, processo operato soprattutto dal clero che seguì il Vescovo riparatosi a Seminara. A Seminara nasceva nel 1290 il monaco Bernardo Barlaam, il più grande Teologo Umanista e Filosofo del '300, iniziatore della polemica "Esicastica" con la Chiesa Ortodossa e maestro di greco del Petrarca, quel greco che si parlava nelle nostre contrade; a Seminara il Barlaam aveva indissato l'abito monastico nell'antico convento basiliano di S. Filoreto. Ma forse l'esempio piu notevole dell'assimilazione della cultura greca sin dai tempi delle prime colonizzazioni del VIII e VII secolo a.c., e la produzione della ceramica in particolare delle maschere e delle anfore.Seminara fu anche centro d'importanza commerciale e militare perchè attraversata dalla via consolare che collegava dal foro di Capua la via Appia con Reggio Calabria.Testimonianza della viva fede religiosa e del potere ecclesiastico che gestiva gran parte della vita pubblica e lo straordinario numero delle chiese e dei conventi esistenti dentro e fuori le mura della città. Un manoscritto del tempo elenca ben 33 chiese e 5 convrnti di Basiliani tra i quali il più antico e importante era quello di S. Filareto. Di questo convento facevano parte i dotti monaci seminaresi Bernardo Barlaam e Leonzio Pilato, maestri del Petrarca e del Boccaccio. Nel convento venne ospitato, negli ultimi anni di vita, Giovanni Boccaccio e fece i suoi studi filosofici Bernardino Telesio di Cosenza.L'antica città di Seminara venne distrutta quasi completamente dal terribile terremoto del 5.2.1783 e, la nuova Seminara venne progettata e costruita più a monte dello stesso crinale aspromontano su pianta del reggio architetto Vincenzo Ferrarese. Seminara mantiene, del suo glorioso passato, testimonianze importanti. Infatti, è il paese che possiede il più alto numero di opere scultoree del '500 di tutta la Calabria, in massima parte conservato nelle sue chiese: per questo è considerata una PICCOLA CITTA' MUSEO dagli studiosi.
Da vedere
Chiesa di s. Michele - Chiesa seicentesca in cui sono conservate alcune sculture del 500.Chiesa di S. Marco - Chiamata originariamente chiesa della Madonna degli Angeli, risale come epoca di costruzione presumibilmente, al XVI sec.Distrutta più volte da dai terremoti,per ultima fu ricostruita per mano dei prestigiosi maestri d'arte Buggè Pacifico e dal figlio Antonio che ne vinsero la gara d'appalto in un'asta chiamata all'epoca "allo spegnersi del lumicino". Dichiarata Monumento nazionale per le pregevoli opere che vi si trovano:-Madonna degli Angeli, pregevole opera in marmo con fini sculture nel basamento dell' Antonello Gagini. (navata sinistra) - Paliotto dell'Altare maggiore in marmi policroni a rilievo. raffigurante la Trasfigurazione. Scultura del XVIII secolo.- Paliotto in marmo, raffigurante la Trasfigurazione databile al XVI secolo.- Altare marmoreo con tabernacolo del '500 ornato di angeli, puttini e i SS. Francesco e Caterina da Siena, iscritto in una grande pala decorata con motivi vegetali. (navata sinistra) -Altare dell'epifania scolpito in marmo carrarese, opera probabile della scuola siciliana databile al XVI secolo. Proviene dalla vecchia città di Seminara distrutta dal terremoto del 1783. (navata destra) -Stemma scolpito in marmo a bassorilievo. -Crocefisso ligneo. Secondo alcuni storici proviene dalla distrutta città di Taureana, X secolo.SANTUARIO DELLA MADONNA DEI POVERI -E' stato ricostruito dopo il terremoto del 1908 sulle rovine del vecchio Santuario. Sono conservati:- preziosi reliquari in argento quattrocenteschi. - I1 battistero del 500 -Due statue di Rinaldo Bonanno del 600 -Statua lignea della Madonna dei Poveri, questa secondo la tradizione popolare, fu trovata a Taureana nei pressi delle rovine della chiesa di S. Fantino, annerita dalle fiamme dell'ultimo saccheggio dei saraceni verso la metà del X secolo. La tradizione riferisce che questa sacra immagine si mostò miracolosa fin da quando fu scoperta. Difatti, mentre si era rivelata pesante ed irremovibile ai reiterati tentativi da parte delle autorità civili e religiose, al contrario, si lasciò sollevare, lieve e quasi condiscendente, dalle braccia dei più umili popolani, i quali da quel momento la acclamarono e la venerarono col nome di Madonna dei Poveri. Migliaia di pellegrini, ogni anno, giungono dalla Calabria, dalla Lucania e dalla Sicilia per presenziare ai festeggiamenti che dal 31 luglio al 15 di agosto sono tenuti in suo onore a Seminara Dal suo apparire fino ai giorni nostri numerosissimi sono i miracoli attribuiti alla statua dalla tradizione religiosa popolare, tanto che l'appellativo di taumaturgica immancabilmente accompagna il nome della Madonna dei Poveri.CHIESA DI S. ANTONIO -Vi si trovano sculture cinquecentesche. PALAZZO MUNICIPALE -Si trovano 4 bassorilievi cinquecenteschi di perfetta fattura, che costituiscono il basamento del monumento dedicato a Carlo V che era situato nell'antica piazza dello Spirito Santo, presso la porta settentrionale della vecchia Seminara, anche distrutto dal terremoto del 1783. Raffigurano le famose battaglie tra Francesi e Spagnoli del 1495 e del 1503, l'entrata trionfante di Carlo V in Seminara e le scene dei festeggiamenti organizzati in suo onore. Sempre nel palazzo municipale si trovano custodite due sculture granitiche raffiguranti dei monaci in preghiera provenienti dall'antica Seminara, secolo XII-XIII.PALAZZO MEZZATESTA -Si considera il Palazzo Mezzatesta residenza dei Duchi Spinelli. Dopo la loro partenza (1806) il palazzo passò alla famiglia Mezzatesta che lo riedificò sulle strutture cinquecentesche danneggiate dal terremoto del 1783. Infatti la struttura presenta una diversità di stile: la porta e il frontone centrale sono tipicamente cinquecentesche, il resto ottocentesco. Danneggiato dal terremoto del 28 dicembre 1908 non è stato più riedificato. CONVENTO DEI CAPPUCCINI -Fondato da Carlo Spinelli duca di Seminara nell'anno 1560, il quale morto l'anno 1563, fu seppellito nella chiesa del convento, come aveva ordinato prima di morire. Intitolato al SS. Hecce Homo, dopo il terremoto del 1783 fu chiuso e venne riaperto nel 1799, soppresso nel 1811, riattivato nel 1824, fu definitivamente soppresso nel 1860. Ora insieme alla chiesa è in potere del Municipio di Seminara. Fino al 1973 era uffiziata da un sacerdote secolare. Oggi in stato di rudere. CONVENTO DEI PACILOTTI -Fondato nel 1623 e soppresso con decreto 07-08-1809, confinava con la chiesa di S. Marco Vecchio. Oggi in stato di rudere. OSPEDALE -Costruito tra il 1400-1450. I1 più antico Ospedale della Calabria. Oggi in stato di rudere. OBELISCO BASILIANO PORTA DEL BORGOFONTANA ROSELLAARCO DI ROSELLA- Parte delle antiche mura di cinta della città.
Avvenimenti
Tra le varie manifestazioni popolari ancora vive a Seminara, la più spettacolare senza dubbio la danza dei "Giganti", due enormi fantocci di carta pesta, alti circa 3 metri, portati in spalla da due uomini e fatti danzare al suono dei tamburi in tutte le strade del paese, Mata (la principessa bianca) e Grifone (il principe moro) accompagnati da altri due fantocci un cavallo ed un cammello. La loro origine è probabilmente araba ed e presente anche in Sicilia, in Sardegna ed in Spagna. Rappresentano la trasposizione mitica di vicende legate alle scorrerie barbaresche nel Mediterraneo: il principe moro, che giunge sui lidi del nostro Sud, rapisce la bellissima fanciuIla bianca e la conduce nel suo palazzo in terra d'Africa, dove sono cavalli, cammelli e schiavi (nel nostro dialetto: 'u scavuzzu lo schiavetto). Altre tradizioni cittadine ultrasecolari sono anche i TAMBURINI e il PALIO.I Tamburini sono, anch'essi, un adattamento "povero" di usi mediaevali e rinascimentali. Il popolo, privo di mezzi più adeguati, "imita" a modo suo, le sfilate, ben altrimenti ricche, multicolori e sfarzose, offerte dai tamburini delle città comunali del Nord della nostra penisola o dei comuni meridionali più popolosi ed economicamente più abbienti. Inoltre, nell'intento di arricchiremil modesto quadro, l'ingegno popolare ha pensato bene di prendere in prestito qualche elemento del folclore di Napoli (il "capotamburo", ad esempio), città nella cui orbita politica e culturale Seminara ha, peraltro, gravitato dal '400 in poi.I1 Palio è il gonfalone cittadino. Grande drappo di seta azzurra issato su un'asta alta circa 6 metri, era il simbolo dell'autonornia di Seminara e, verosimilmente, costituiva, in un'epoca di rigide stratificazioni e differenziazioni sociali, il collante in grado di unire in un unico sentimento di forte orgoglio campanilistico i più disparati ceti sociali della comunità seminarese. Il "giro" del Palio, al ritmo dei tamburi, è fiero e fisicamente oneroso (viste le dimensioni dell'asta) privilegio pressochè secolare di una famiglia seminarese.La danza dei Giganti, il giro dei Tamburim e del Palio si svolgono durante i festeggiamenti della Madonna dei Poveri dal 10 al 15 agosto. Altre iniziative di carattere folcloristico e culturale organizzate dall'Amministrazione Comunale e dalle Associazioni cittadine: a Pasqua 'l'Affruntata"; ad Agosto 'la sagra dell'olio" e il "Corteo Storico" rievocativo, in costume d'epoca, dell'entrata di Carlo V a Seminara. Da segnalare, poi, la festa della Madonna dei Poveri dal 10 al 15 agosto, dove si svolge anche il "giro" del Palio e una imponente fiera. Seminara è anche nota per la notevole attivita musicale: la stagione concertistica; il Concorso lirico Internazionale "V. Nostro"; il concorso di Composizione per banda; "Bandafestival", raduno dei complessi bandistici meridionali.