Quella mattina a Roma c’era un sole caldissimo, spuntato all’improvviso dopo mesi e mesi di pioggia e freddo. I romani avevano atteso a lungo la buona stagione che quell’anno sembrava davvero non arrivare mai. Gli esperti avevano sentenziato che era da 150 anni che non c’era stato un tempo così cattivo in Italia, con neve a bassa quota anche in pieno maggio, cosa davvero incredibile.
Ma finalmente le cose sembravano essersi raddrizzate. Nelle piazze erano di nuovo spuntati i tavolini all’esterno di bar e ristoranti e nei giardini interni degli alberghi, i clienti potevano finalmente crogiolarsi al sole, sotto vezzosi cappellini di paglia. E due splendidi cappelli di paglia erano appunto quelli che indossavano il signor Mark Goldman e sua moglie Betty quella calda mattina, mentre leggevano una copia dell’Herald Tribune nel giardinetto interno dell’Hotel Modigliani.
Sotto ai cappelli entrambi indossavano abiti casual con t-shirt coloratissime e jeans. Scintillanti collane indiane adornavano i loro colli mentre sulle sedie di fronte poggiavano i loro piedi rigorosamente nudi e abbronzati.
Mark era un artista di Carmel-by-the sea, in California, anche se era in realtà originario di New York City. Il suo studio da pittore si chiamava Marco, all’italiana, proprio come il nome del proprietario di quell’hotel che lui agganciò immediatamente con un: “Ehi, Sir, noi ci chiamiamo nello stesso modo !”.
E quando il proprietario ordinò un cappuccino e si mise a chiacchierare con lui, ecco che Mark passò subito ad illustrare in dettaglio tutti gli aspetti della sua attività artistica, iniziando proprio da quella scuola di pittura contemporanea che da giovane aveva frequentato a New York.
“Negli anni ’70, d’estate, andavamo a perfezionare la nostra tecnica a Firenze. Ma non tutti gli allievi venivano inviati lì, a spese della scuola. Sono i migliori, e io, naturalmente, ero uno di quelli”, diceva Mark, senza alcuna traccia di umiltà. Betty, nel frattempo, continuava a sfogliare il suo giornale, cercando ogni tanto di spostare la sedia per catturare al meglio qualche caldo raggio di sole.
“Mark è bravissimo”, diceva ogni tanto, prima di riprendere a leggere.
“Ho studiato moltissimo”, insisteva Mark. “Come Picasso sono passato dal disegno dal vero, alla natura, dallo studio dei visi agli oggetti. Fino ad arrivare a quello che a me interessava di più”.
“E sarebbe?”, domandò il proprietario, cercando di trattenere uno sbadiglio.
“Il nulla”, sentenziò immediatamente Mark, con uno straripante sorriso.
“Ah, ecco. Adesso è tutto chiaro”, commentò il povero italiano, ormai completamente frastornato.
Subito dopo Mark iniziò a parlare di Firenze e di quanto quelle estati italiane avevano influito sulla sua personalità di uomo e sulla sua tecnica pittorica.
“La sera andavamo a mangiare alla Trattoria Angiolino che si trovava nelle antiche scuderie di palazzo Frescobaldi. Ricordo che alle pareti c’erano i resti di un grande affresco di Pietro Annigoni. All’ingresso invece c’era un grande bancone di marmo dove io e il figlio del proprietario ci giocavamo la cena a braccio di ferro”.
“E chi vinceva?”
“Lui, è evidente, anche perché io ero troppo ubriaco di vino rosso toscano per essere minimamente competitivo. Così gli dicevo di segnare che avrei pagato il conto il giorno dopo. Cosa che, comunque, non feci mai”.
“E come andò a finire?”
“Andò a finire che un giorno suo padre si incavolò moltissimo e minacciò di chiamare la polizia, se non avessimo pagato una volte per tutte. Per fortuna che in quel gruppo di studenti americani c’era il figlio di un famoso miliardario di Wall Street, un certo Spencer, il quale si offrì di saldare lui. Tirò fuori un libretto assegni e ualà, tutto risolto”.
“E ualà…”, ripeté l’italiano, sperando che anche per il conto dell’albergo di Mark e signora non sarebbe dovuto intervenire qualche miliardario di passaggio.
Fu più o meno in quell’istante che l’eccentrica Betty tirò fuori dalla sua borsa l’ultimo modello di I-pod e, digitato l’indirizzo del sito del marito, iniziò a mostrare al povero proprietario tutte le opere dell’artista.
“Ecco qua”, commentò Mark, mentre, una dopo l’altra, si avvicendavano sullo schermo le foto delle sue opere.
Si trattava di quadri giganteschi del formato di circa due metri per tre. In realtà, più che quadri veri e propri, erano proprio semplici tele tutte bianche, così com’erano state costruite. Non c’era alcuna traccia di colore, né un colpo di pennello e neanche qualche squarcio di coltello alla Lucio Fontana o qualche sacco di tela appiccicata stile Alberto Burri. No, le opere di Mark Goldman erano solo tele bianche, di varie dimensioni, ma tutte assolutamente bianche.
“Il nulla”, confermò Betty, estasiata.
“Il nulla”, ripeté il proprietario, distrutto