Trovo veramente interessante pubblicare questo articolo di Giuseppe Antonio Martino sul "brigantaggio in Calabria" che non era il padre della 'ndrangheta, ma l'esasperazione delle misere condizioni di vita della classe dei contadini e dei pastori che non avevano opzioni diverse: morire per fame o farsi giustizia con le proprie mani visto che dalle istituzioni nessun progresso veniva somministrato.
Non è raro che nel linguaggio comune l’appellativo di brigante sia erroneamente ritenuto sinonimo di bandito ma, come afferma Francesco Saverio Nitti nei suoi Scritti sulla questione meridionale (Bari, 1958, pag. 44), “per le plebi meridionali il brigante fu assai spesso il vendicatore e il benefattore: qualche volta fu la giustizia stessa. Le rivolte dei briganti, coscienti o incoscienti, nel maggior numero dei casi ebbero il carattere di vere e selvagge rivolte proletarie” e si verificarono sempre in periodi storici caratterizzati da squilibrio sociale e politico. In Italia, con il termine brigantaggio si indica oggi la rivolta antisabauda e antiunitaria che interessò i territori meridionali immediatamente dopo l’unificazione della penisola italiana e che venne repressa, colpendo non solo i presunti e veri briganti, ma anche i sospettati di manutengolismo con i briganti, con l’applicazione della legge speciale 15 agosto 1863 n. 1409, detta Legge Pica, rimasta in vigore fino alla fine del 1865.
Il fenomeno, però, non era nuovo nell’Italia meridionale: già tra il XV e il XVI secolo, gli strati bassi della popolazione e gruppi di contadini, oppressi dal fisco e angariati dai padroni, in Calabria e in Abbruzzo, come in altri territori dominati dalla Spagna, si erano dati alla macchia e nel XVIII sec., oltre che nella rivolta delle plebi contro i proprietari terrieri, il brigantaggio si era manifestato, nel 1799, contro i francesi ed i loro sostenitori locali.
In quell’occasione i capipopolo sanfedisti riuscirono a porre fine alla Repubblica Napoletana e permisero ai Borbone, che promossero molti briganti al grado di colonnello dell’armata regia, di riconquistare il Regno di Napoli, destinato però a tornare in mano francese nel 1806.
Durante il dominio napoleonico il malcontento, diffuso in moltissime zone del sud della penisola, anche se i moti arano stati scongiurati e repressi dalla massiccia presenza dell’esercito, trovò espressione nel brigantaggio, che divenne vera e propria guerriglia popolare, alimentato dai Borbone che, dalla Sicilia, miravano alla riconquista del Regno.
Proprio durante il decennio della dominazione francese, e precisamente tra il 1807 e il 1812, sui piani della corona, l’ultimo contrafforte occidentale dell’Aspromonte, tra i territori di Palmi, Seminara, Melicuccà e Bagnara, in provincia di Reggio Calabria (cfr. Giuseppe Silvestri Silva, Memorie storiche della città di Palmi, Genova,1930), si sono svolte le drammatiche vicende delle quali è stata protagonista Francesca La Gamba, la prima brigantessa di età moderna, come la definisce Valentino Romano nel suo volume Brigantesse (Napoli, 2007, pag. 28), che hanno ispirato il romanzo storico La capitanessa dei piani della Corona di Attilio Foti (Cosenza, 2002).
Francesca aveva coronato il suo sogno di amore, ancora diciottenne, con Saverio Saffioti, anche lui di Palmi, sua città natale, ma rimasta vedova ancora giovane con due figli, Carmine e Domenico, dopo aver sposato in seconde nozze Antonio Gramuglia, si era trasferita a Bagnara dove era nata Rosa, la terza figlia. Anche se già provata dalle sofferenze, quando l’esercito Francese invase il suo paese, aveva 38 anni e sognava ancora una vita piena di soddisfazioni, ma doveva ancora sperimentare che dignità e onore si pagano a caro prezzo: un delinquente, già ricercato dalla polizia borbonica, che nel ’99 aveva ottenuto i gradi di ufficiale dal Cardinale Ruffo e che all’arrivo dei francesi si era arruolato nella milizia civile si invaghì di lei. Quando, tronfio della sua arroganza e forte della divisa che indossava, cominciò ad insidiarla con accanimento, non accettò di essere da lei energicamente respinto e organizzò la più crudele delle vendette: accusò ingiustamente di attività clandestina contro i francesi i due figli maschi ancora adolescenti, che furono processati e condannati alla fucilazione, dopo aver fatto arrestare, con l’accusa di girare armato, Antonio Gramuglia che, qualche giorno dopo l’esecuzione dei due ragazzi morì di rabbia e di dolore.
L’irrefrenabile voglia di vendetta spinse Francesca ad unirsi ad una banda di briganti che aveva stabilito il suo quartiere generale sui piani della Corona, non lontano del tracciato dell’antica via Popilia, e che fino ad allora, a parte qualche scaramuccia con i francesi, si era limitata ad assaltare le diligenze al “passo di Caracciolo”, un luogo rimasto nella storia proprio per quelle imprese banditesche. Combattendo accanto ai briganti con coraggio, la donna meritò la loro ammirazione, tanto da diventare molto presto la capobanda e dare alle azioni dei suoi compagni una carica ideale che trovava ispirazione nella necessità di combattere i francesi oppressori.
All’arrivo in Calabria del Principe Luigi d’Assia, che tentava, nel 1807, la riconquista della parte continentale del regno dei Borbone, Francesca non ci pensò due volte, offrì al nuovo arrivato l’aiuto della sua banda e, il 28 maggio di quell’anno, partecipò alla battaglia di Mileto, dopo la quale un centinaio dei suoi briganti divennero soldati dell’esercito borbonico e pare che lei stessa sia stata nominata capitano.
Fu proprio durante uno scontro con i francesi che Francesca riuscì a mettere in atto il suo proposito di vendetta: lei e i suoi compagni, accerchiati gli avversari che erano alla loro ricerca sui piani della Corona, riuscirono a mettere in atto una controffensiva e catturare molti prigionieri, tra cui l’ufficiale che l’aveva insidiata e che aveva fatto giustiziare i suoi figli.
Lo storico Vittorio Visalli, in I Calabresi nel Risorgimento italiano – Storia documentata delle rivoluzioni calabresi dal 1799 al 1862, Torino 1893 (vol.I, pagg.124-125), solo alcuni decenni dopo quei tristi avvenimenti, affermava che Francesca, trovatasi quell’uomo ferito davanti agli occhi, come in un melodramma, “lo scanna, gli strappa il cuore e lo divora ancor palpitante”.
Pare che l’ultimo combattimento contro i francesi durante il quale “si segnalò per valore la capitanessa di Palmi” sia stato l’assedio di Genova, nel 1812: Le cronache non dicono altro e di Francesca La Gamba non si seppe più nulla, né ci è dato sapere se la sua efferatezza sia solo il frutto della fantasia popolare. Certo è che la sua vicenda, anche se colorita dal mito, racchiude le ragioni che hanno spinto una tranquilla madre calabrese, che ha assistito alla distruzione della sua famiglia ad opera di oppressori stranieri, a trasformarsi nella personificazione della vendetta. Nel 1925, dopo la ricostruzione di Palmi distrutta dal terremoto del 1908, qualcuno propose di intitolare una via della città natale alla brigantessa dei piani della Corona, ma quella proposta fu scartata perché ritenuta indecorosa ed il suo nome è rimasto avvolto dalla leggenda.
Qualche decennio più tardi dei fatti che l’hanno visto protagonista, altre popolane meridionali che, come afferma Valentino Romano, la storiografia ha ingiustamente bollato come “drude”, donnacce, trascurando di considerare il loro ruolo di donne guerrigliere contro la conquista del Sud, per amore di un uomo o spinte dalla prevaricazioni dei conquistatori, scelsero la via del brigantaggio e scrissero pagine piene di odio e di amore che i governi succedutisi in più di cento cinquanta anni hanno cercato di far dimenticare.
Giuseppe Antonio Martino
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