Leonardo Dudreville (Venezia, 4 aprile 1885 – Ghiffa, 13 gennaio 1976) è stato un pittore italiano, fra gli iniziatori del movimento artistico del Novecento nel 1922 a Milano.[1] Fu esponente di spicco
dell'iperrealismo italiano durante il ventennio.
Nato da una famiglia di origine francese (il nome della famiglia Dudreuil verrà successivamente trasformato in Dudreville). Rimasto cieco da un occhio all'età di nove anni giocando con una balestra, nel 1902 troncò gli studi classici a cui il padre magistrato lo aveva avviato, dichiarando di voler fare il pittore.
Si trasferì ben presto a Milano dove compì i suoi studi presso l'Accademia di Brera: qui venne in contatto con l'ambiente divisionista lombardo che influenzò fortemente la sua opera lungo il corso del suo primo periodo artistico.
Nel 1906 si recò a Parigi con Anselmo Bucci e lo scrittore Mario Bugelli. Insoddisfatto vi restò solo per pochi mesi, per poi di tornare in Italia e stabilrsi per qualche tempo a Borgo Taro nel Parmense, dove eseguì il dipinto più noto di questa fase giovanile: Mattino sull'Appennino , esposto nel 1908 alla Promotrice di Torino e in seguito acquistato dal mercante Alberto Grubicy (oggi esposto alla Galleria Nazionale d'arte moderna di Roma).
Nel frattempo si accostò all'avanguardia futurista. Pur non aderendo al movimento, si interessò al concetto di ritmo e al suo rapporto con il colore, fondando il gruppo "Nuove tendenze". La sua posizione teorica in quegli anni era fondata su una corrispondenza tra stato d'animo e colore.
Conobbe, inoltre, Boccioni e i futuristi, ma non venne incluso tra i firmatari del loro Manifesto.
Nel 1919 Dudreville decise di abbandonare l'astrattismo per ritornare ad una figurazione classica ed iperrealista: "Idee chiare, chiaramente espresse" da questo momento divenne il suo motto. Alla base di questo radicale cambiamento ci fu la parentesi di guerra vissuta tra il 1915 e il 1918 (a cui Dudreville non partecipò in quanto riformato) che rappresentò per il pittore una crisi artistica destinata a rivoluzionare il suo modo di concepire l'arte.
Nel 1920 firmò il Manifesto contro tutti i ritorni in pittura e nel marzo 1921 partecipò alla mostra berlinese del gruppo di Valori plastici.
Intanto si era avvicinato al cenacolo di Margherita Sarfatti: alla fine del 1922 aderì al gruppo che si riuniva presso la galleria Pesaro con il nome Sette pittori del '900 con Bucci, Funi, G. E. Malerba, P. Marussig, U. Oppi e M. Sironi. Fu tra i fondatori del movimento Novecento e con il gruppo espose nel 1924 alla Biennale veneziana.
La sua partecipazione al gruppo era però limitata (se ne distaccherà nel 1924) e si espresse in una oggettività fiamminga, vicina alla Neue Sachlichkeit tedesca.
Nel 1926 rifiutò gli inviti di Sarfatti di entrare a far parte del comitato del Novecento italiano definendo "fiamminga" la sua pittura. Con questa definizione intese sancire la sua distanza dagli aspetti trionfalistici e storicistici che rimproverava ad alcuni artisti del secondo Novecento italiano[2].
Negli anni Trenta l'artista proseguì appartato la sua ricerca, esponendo alla Quadriennale di Roma e a due personali milanesi (Galleria Dedalo, nel 1936 e Galleria Gian Ferrari nel 1940).
Nel 1942, volendo sfuggire ai bombardamenti, abbandonò Milano e si rifugiò a Ghiffa sul lago Maggiore.
Qui restò il resto della sua vita (morì nel 1976) dedicandosi, oltre che alla pittura e alla musica, alla stesura di memorie e testimonianze, alla lettura, alla caccia e alla pesca, alla costruzione di barche.
Autoritratto del pittore
Bosco Firmato e datato 1940