auto antiche e moderne

lunedì 31 dicembre 2007

ANNO NUOVO SPERANZE NUOVE


Oggi 31 dicembre, ultimo giorno dell’anno.

Lungo ed inutile sarebbe ripercorrere o ricordare i diversi fatti che si sono susseguiti nel 2007. Ognuno di noi in questo anno ha vissuto giorni lieti e giorni meno lieti,ma tutti nostri che hanno cadenzato la nostra esistenza. Si usa brindare all’anno nuovo che è alle porte. Con gli spari che rimbombano da città in città si vuol oltre che festeggiare la nascita del Nuovo Anno,quasi infierire su quello che è già morto,come se tutte le negatività fossero state appannaggio di quello passato.

L’infante che sta per giungere, nostra speme, ci ricolmerà di gioie inaspettate.

Viviamo sempre di speranza,contiamo sempre sul futuro, perché questo è a noi sconosciuto. Quando poi, con il trascorrere dei giorni anche questo si apre alle gioie ed ai dolori,non teniamo in giusto conto le ore liete, ma tristemente annotiamo i giorni nefasti,per poter poi, l’ultimo giorno ,gioire della sua fine e brindare a un prossimo futuro anno (nella speranza) ancora migliore.
E intanto gli anni ……. passano!

Lascio ai lettori i commenti su queste mie riflessioni.

domenica 16 dicembre 2007

BUON NATALE 2007


AUGURO ad amici conoscenti e a quanti vedranno questo blog un Felice Natale.

domenica 9 dicembre 2007

Barlaam e gli Esicasti


Barlaam e gli Esicasti.
Chi erano gli esicasti ?
Erano i seguaci di una dottrina mistica che provocò forti contrasti nell'Impero bizantino intorno al XIV sec.

Gli esicasti furono, nei primi tempi del monachesimo orientale, monaci contemplativi, praticanti l'ascesi mediante un'incessante invocazione del nome di Gesù. A poco a poco l'esicasmo divenne un metodo di contemplazione, basato su elementi psichici e fisiologici, che trovò la sua perfezione presso i monaci del Monte Athos: i suoi seguaci intendevano trovare nella totale immobilità fisica e intellettuale, guardandosi
fissamente l'ombelico, l'unione diretta con Dio, manifestata da una luce simile a quella che circondò Cristo sul monte Tabor. Questa dottrina, difesa da Gregorio Palamas, fu violentemente combattuta dal monaco di origine calabra Barlaam: la disputa, con implicazioni politiche, divise l'Impero per dieci anni (1341-1351), contribuendo a indebolirlo di fronte ai Turchi.
L'immagine sopra esposta ritrae fra Barlaam. Stampa che servi poi al pittore A. Buggè per la ricostruzione pittorica del volto dell'insigna frate.(vedi il post di questo blog.Personaggi illustri di Seminara)

venerdì 7 dicembre 2007

Polonia Zalipie.



Tarnov
La cosa che vale la pena di visitare a Tarnow è la città vecchia, di impianto medievale, con la bella Piazza del mercato, i caratteristici portici ed il palazzo del Municipio.Non lontano dal vecchio centro si trova Plac Bohaterów Getta (piazza degli Eroi del ghetto) e subito accanto a essa ci sono i bagni rituali della comunità ebraica. E' da questo triste luogo che, il 14 giugno 1940, iniziò la deportazione verso Auschwitz.Da Tarnow consigliamo assolutamente di dirigersi, attraverso sperdute strade di campagna, al minuscolo paesino di Zalipie, per noi una delle più belle "scoperte" di questo viaggio in Polonia, tanto più che se ne fa scarsa o nessuna menzione nelle guide.Zalipie, il paese delle artiste, dista una trentina di chilometri da Tarnow, ma è come catapultarsi in un altro mondo, in altri ritmi.La caratteristica che ha reso noto Zalipie è che tutte le case sono decorate da splendidi e coloratissimi motivi floreali; la tradizione vuole che questa moda sia iniziata per camuffare le macchie di muffa che deturpavano la facciata delle bianche case di Zalipie.Quest'arte, che via via si è estesa alla decorazione di oggetti in legno, alla creazione di ricami, bambole ecc. tutte caratterizzate da motivi floreali, è praticata esclusivamente dalle donne.Esiste un delizioso museo etnografico ospitato nella casa della defunta Felicja Curylowa, lei stessa una brava pittrice

Sulla pittura nichilista

Il nulla porta un artista come l’americano Ad Reinhardt alle tele nere, quelle che ha chiamato i 'dipinti definitivi', un musicista come John Cage a 4´33', il pianista seduto di fronte al suo pianoforte, che non sfiora nemmeno, per lunghi quattro minuti e trentatré secondi, o un regista come Jean-Luc Godard allo schermo bianco dei suoi film. Se il nulla confonde l´artista, turba ancor più lo scienziato, che lo ha sempre guardato con gran sospetto.
Lo si vede innanzitutto nella storia dello zero, dove ci sono ipotesi suggestive e forse vere. Si sa da molto tempo che lo zero è stato introdotto dai matematici indiani verso il 500 d.C. accanto alle altre nove cifre che usavano già da vari secoli. Duecento anni dopo lo zero passò agli arabi e da questi in Italia e in Europa per merito di Leonardo Fibonacci che avendo seguito il padre, funzionario delle dogane di Pisa in Africa del nord, si rese conto che il sistema di numerazione indo-arabo era superiore a quello romano allora ancora in uso in Occidente. Gli studi successivi hanno poi accertato che quasi contemporaneamente e indipendentemente dagli indiani anche i Maya avevano scoperto lo zero e che molto prima di loro (oltre 2000 anni prima sia degli indiani che dei Maya) i babilonesi avevano usato per indicarlo due cunei inclinati. I primi ad usare lo zero, insomma, sarebbero stati i babilonesi, anche se questo nulla toglie al primato assoluto degli indiani perché solo questi ultimi concepirono lo zero come un vero e proprio numero, sinonimo di “quantità nulla” e lo posero accanto alle altre nove cifre componendo così un insieme completo di simboli matematici che consentiva di generare qualsiasi numero dato che quella strana cifra assumeva per loro la funzione fondamentale di operatore aritmetico. Solo gli indiani, insomma, furono capaci di operare la perfetta fusione tra sistema di numerazione posizionale e concetto di zero dalla quale è nato il linguaggio della matematica.
La filosofia greca, fin dalle sue origini, ha respinto il concetto del nulla. Talete è stato fra i primi a sostenere che 'qualcosa' non poteva derivare dal nulla o scomparire nel nulla: 'Dal nulla non sortirà nulla', dice il Re Lear alla figlia Cordelia. L´horror vacui della fisica aristotelica affermava che non potevano esistere spazi vuoti: la natura aborre il vuot0.......................................................Questa la risposta di un'altro lettore al forum sopra indicato

In un mondo in cui la Storia del prossimo futuro è già stata tracciata in anticipo secondo un canovaccio che non ammette più nessuna variante,come fa un pittore a dipingere in termini di 'bellezza', subire un fascino estetico verso questo mondo agghiacciato e violento? Come può mettere tanta cura nel dipingere un volto, un gesto?
Lo potrà solo se ha la coscienza che tutto nella sua continua opera sarà più riuscito quanto maggiore sarà l’estraneità verso ciò che egli dipinge.
Una pittura aniconica quindi ,priva di significati reali,ma piena di luce e di colori, non ricerca del significato, cosa che molti spasmodicamente cercano, ma contemplazione dell’opera nel suo divenire, nel suo essere e nel suo proporsi……………………………………………………..



Una critica e la risposta del pittore

Alberto amava definirsi " il pittore del Nulla".Infatti la sua era una pittura aniconica, ma non priva di elementi di ricerca quali la luce ed il colore . Il suo " Nichilismo pittorico" fece si che qualche critico ebbe a scrivergli così :


Il nulla porta un artista come l’americano Ad Reinhardt alle tele nere, quelle che ha chiamato i 'dipinti definitivi', un musicista come John Cage a 4´33', il pianista seduto di fronte al suo pianoforte, che non sfiora nemmeno, per lunghi quattro minuti e trentatré secondi, o un regista come Jean-Luc Godard allo schermo bianco dei suoi film. Se il nulla confonde l´artista, turba ancor più lo scienziato, che lo ha sempre guardato con gran sospetto.
Lo si vede innanzitutto nella storia dello zero, dove ci sono ipotesi suggestive e forse vere. Si sa da molto tempo che lo zero è stato introdotto dai matematici indiani verso il 500 d.C. accanto alle altre nove cifre che usavano già da vari secoli. Duecento anni dopo lo zero passò agli arabi e da questi in Italia e in Europa per merito di Leonardo Fibonacci che avendo seguito il padre, funzionario delle dogane di Pisa in Africa del nord, si rese conto che il sistema di numerazione indo-arabo era superiore a quello romano allora ancora in uso in Occidente. Gli studi successivi hanno poi accertato che quasi contemporaneamente e indipendentemente dagli indiani anche i Maya avevano scoperto lo zero e che molto prima di loro (oltre 2000 anni prima sia degli indiani che dei Maya) i babilonesi avevano usato per indicarlo due cunei inclinati. I primi ad usare lo zero, insomma, sarebbero stati i babilonesi, anche se questo nulla toglie al primato assoluto degli indiani perché solo questi ultimi concepirono lo zero come un vero e proprio numero, sinonimo di “quantità nulla” e lo posero accanto alle altre nove cifre componendo così un insieme completo di simboli matematici che consentiva di generare qualsiasi numero dato che quella strana cifra assumeva per loro la funzione fondamentale di operatore aritmetico. Solo gli indiani, insomma, furono capaci di operare la perfetta fusione tra sistema di numerazione posizionale e concetto di zero dalla quale è nato il linguaggio della matematica.
La filosofia greca, fin dalle sue origini, ha respinto il concetto del nulla. Talete è stato fra i primi a sostenere che 'qualcosa' non poteva derivare dal nulla o scomparire nel nulla: 'Dal nulla non sortirà nulla', dice il Re Lear alla figlia Cordelia. L´horror vacui della fisica aristotelica affermava che non potevano esistere spazi vuoti: la natura aborre il vuoto.
E fino all’inizio del ventesimo secolo, sopravvisse la credenza nell’esistenza di un 'etere' misterioso, che serviva soltanto a negare l´esistenza di uno spazio vuoto. Non è stato semplice per l´uomo accettare l´idea del vuoto e del concetto matematico che lo rappresenta, zero. Grandi civiltà, come quella greca e quella romana, non avevano il numero zero. I numeri servivano soltanto per contare oggetti concreti, non la loro assenza e quindi lo zero non serviva a nulla. .........................................................


cosi Alberto rispose :

Gentilissimo Critico, la ringrazio per l'attenzione dedicata alla mia povera produzione artistica apparsa su Internet sul sito di mio fratello. La notizia del suo divertimento mi ha a mia volta,molto divertito. Non è mia l'invenzione della "pittura del Nulla": la scoperta di un'arte puramente visiva in cui la forma si dissocia dal contenuto e ne fa pure a meno.
Come ben saprà,è un idea resa oralmente esplicita (verbalmente dichiarata e rivendicata) ormai da circa un secolo.
Cito semplicemente il lemma "formalismo",in Enciclopedia Zanichelli a cura di Edigeo (Editoriale La Repubblica,1995).
Con la mia personale ricerca nel corso dell'ultimo mezzo secolo della mia attività,( isolata,modesta,schiva e deliberatamente lontana da ogni tentazione mercantile) sono spesso approdato ad esiti antinaturalistici,aniconici,antisimbolisti,svincolati da ogni ambiguo e fuorviante rimando alle materie che formano più propriamente l'oggetto della comunicazione verbale. (poesia,psicologia,sociologia,religione,eros,filosofia.ecc ecc.). Non chiedo consensi,ma,semmai,empatia estetica.
Gradisca i miei saluti. Alberto Buggè





L’artista del nulla



Quel pittore di New York, dal nome italiano, ispirato da Firenze e che in California ha "completato" la sua opera
Quella mattina a Roma c’era un sole caldissimo, spuntato all’improvviso dopo mesi e mesi di pioggia e freddo. I romani avevano atteso a lungo la buona stagione che quell’anno sembrava davvero non arrivare mai. Gli esperti avevano sentenziato che era da 150 anni che non c’era stato un tempo così cattivo in Italia, con neve a bassa quota anche in pieno maggio, cosa davvero incredibile.
Ma finalmente le cose sembravano essersi raddrizzate. Nelle piazze erano di nuovo spuntati i tavolini all’esterno di bar e ristoranti e nei giardini interni degli alberghi, i clienti potevano finalmente crogiolarsi al sole, sotto vezzosi cappellini di paglia. E due splendidi cappelli di paglia erano appunto quelli che indossavano il signor Mark Goldman e sua moglie Betty quella calda mattina, mentre leggevano una copia dell’Herald Tribune nel giardinetto interno dell’Hotel Modigliani.
Sotto ai cappelli entrambi indossavano abiti casual con t-shirt coloratissime e jeans. Scintillanti collane indiane adornavano i loro colli mentre sulle sedie di fronte poggiavano i loro piedi rigorosamente nudi e abbronzati.
Mark era un artista di Carmel-by-the sea, in California, anche se era in realtà originario di New York City. Il suo studio da pittore si chiamava Marco, all’italiana, proprio come il nome del proprietario di quell’hotel che lui agganciò immediatamente con un: “Ehi, Sir, noi ci chiamiamo nello stesso modo !”.
E quando il proprietario ordinò un cappuccino e si mise a chiacchierare con lui, ecco che Mark passò subito ad illustrare in dettaglio tutti gli aspetti della sua attività artistica, iniziando proprio da quella scuola di pittura contemporanea che da giovane aveva frequentato a New York.
“Negli anni ’70, d’estate, andavamo a perfezionare la nostra tecnica a Firenze. Ma non tutti gli allievi venivano inviati lì, a spese della scuola. Sono i migliori, e io, naturalmente, ero uno di quelli”, diceva Mark, senza alcuna traccia di umiltà. Betty, nel frattempo, continuava a sfogliare il suo giornale, cercando ogni tanto di spostare la sedia per catturare al meglio qualche caldo raggio di sole.
“Mark è bravissimo”, diceva ogni tanto, prima di riprendere a leggere.
“Ho studiato moltissimo”, insisteva Mark. “Come Picasso sono passato dal disegno dal vero, alla natura, dallo studio dei visi agli oggetti. Fino ad arrivare a quello che a me interessava di più”.
“E sarebbe?”, domandò il proprietario, cercando di trattenere uno sbadiglio.
“Il nulla”, sentenziò immediatamente Mark, con uno straripante sorriso.
“Ah, ecco. Adesso è tutto chiaro”, commentò il povero italiano, ormai completamente frastornato.
Subito dopo Mark iniziò a parlare di Firenze e di quanto quelle estati italiane avevano influito sulla sua personalità di uomo e sulla sua tecnica pittorica.
“La sera andavamo a mangiare alla Trattoria Angiolino che si trovava nelle antiche scuderie di palazzo Frescobaldi. Ricordo che alle pareti c’erano i resti di un grande affresco di Pietro Annigoni. All’ingresso invece c’era un grande bancone di marmo dove io e il figlio del proprietario ci giocavamo la cena a braccio di ferro”.
“E chi vinceva?”
“Lui, è evidente, anche perché io ero troppo ubriaco di vino rosso toscano per essere minimamente competitivo. Così gli dicevo di segnare che avrei pagato il conto il giorno dopo. Cosa che, comunque, non feci mai”.
“E come andò a finire?”
“Andò a finire che un giorno suo padre si incavolò moltissimo e minacciò di chiamare la polizia, se non avessimo pagato una volte per tutte. Per fortuna che in quel gruppo di studenti americani c’era il figlio di un famoso miliardario di Wall Street, un certo Spencer, il quale si offrì di saldare lui. Tirò fuori un libretto assegni e ualà, tutto risolto”.
“E ualà…”, ripeté l’italiano, sperando che anche per il conto dell’albergo di Mark e signora  non  sarebbe dovuto intervenire qualche miliardario di passaggio.
Fu più o meno in quell’istante che l’eccentrica Betty tirò fuori dalla sua borsa l’ultimo modello di I-pod e, digitato l’indirizzo del sito del marito, iniziò a mostrare al povero proprietario tutte le opere dell’artista.
“Ecco qua”, commentò Mark, mentre, una dopo l’altra, si avvicendavano sullo schermo le foto delle sue opere.
Si trattava di quadri giganteschi del formato di circa due metri per tre. In realtà, più che quadri veri e propri, erano proprio semplici tele tutte bianche, così com’erano state costruite. Non c’era alcuna traccia di colore, né un colpo di pennello e neanche qualche squarcio di coltello alla Lucio Fontana o qualche sacco di tela appiccicata stile Alberto Burri. No, le opere di Mark Goldman erano solo tele bianche, di varie dimensioni, ma tutte assolutamente bianche.
“Il nulla”, confermò Betty, estasiata.
“Il nulla”, ripeté il proprietario, distrutto












mercoledì 5 dicembre 2007

Folclore ai piedi dello Scilar

Folclore ai piedi dello Scilar
Nell'Alto Adige, portare i Lederhosen, ovvero i calzoni corti di pelle e i calzettoni bianchi, significa da sempre sottolineare la fedeltà alla propria etnia (basti pensare che indossare il costume tirolese era proibito durante il periodo fascista). Nelle feste e nelle sfilate folcloristiche, le 210 bande musicali e le 140 compagnie degli Schuitzen (le associazioni sudtirolesi che si ispirano agli antichi corpi di tiratori scelti) presentano un magnifico quadro multicolore. Però nella vita quotidiana non esiste più un abbigliamento tipico caratteristico del Tirolo e il costume tradizionale sembra superato e fossilizzato nella storia. In generale, il costume degli uomini dell'800 era costituito da calzoni alla zuava di cuoio o di loden e giubbe di loden, per lo più grigie, brune o rosse. Caratteristiche del costume femminile erano il corpetto e la gonna pesante di Wiefling (misto di lino e lana) o di loden. Il corpetto e la pettorina a forma di cuore erano ornati e orlati con nastri e cordoncini variopinti. Alla fine dell'800 si è progressivamente consolidato un abbigliamento festivo tipico che ha avuto ampia diffusione fra la popolazione rurale di tutto Il Tirolo. Gli uomini indossavano giacca e pantaloni di loden scuro, panciotto e camicia di lino o di lana, una corta sciarpa al collo, un cappello nero, scarpe alte con le suole rinforzate da bullette. Le donne, adeguandosi alla moda di corte, indossavano un abito scuro molto morigerato, con gonna nera lunga fino alle caviglie, giacchetta nera accollata con colletto di pizzo sulla piccola scollatura, grembiule con riflessi cangianti multicolori, cappello nero con nastri di broccato larghi e lunghi